Questa estate molti giovani sono partiti con noi frati per delle esperienze in missione. Eccovi le loro testimonianze!
Durante questa calda estate 2022 noi frati abbiamo proposto ben 3 diverse esperienze in missione (qui l’articolo che le presentava), in cui abbiamo coinvolto molti giovani. Con gioia ora condividiamo con voi le loro testimonianze proprio durante questo ottobre, mese missionario per eccellenza.
Vi lascio subito alle loro parole.
Il Signore ci benedica tutti.
fra Nico – franico@vocazionefrancescana.org
Bosnia-Erzegovina – Servizio migranti
I giovani hanno vissuto un’esperienza di servizio presso la città di Bihac/Sarajevo in Bosnia-Erzegovina, affiancandosi al gruppo di volontari del JRS. Si è trattato di una forte esperienza di condivisione con i migranti, attraverso momenti di incontro, di ascolto, di condivisione e di aiuto.
Tutti i giorni i giovani, assieme ai frati, hanno svolto il servizio di incontro dei migranti nei luoghi in cui questi vivono, affiancandosi al lavoro degli operatori. Prima e dopo il servizio si sono svolte le attività di autogestione per la preparazione dei pasti e la pulizia degli ambienti.
La Bosnia è un punto cruciale per i migranti che cercano di arrivare in Unione Europea, è l’ultimo step prima della Croazia. Ogni anno migliaia di persone cercano di attraversare illegalmente la frontiera, di notte, attraverso i boschi.
Questa estate ho avuto la grande fortuna di aderire alla proposta “Testimoni della Speranza… in Bosnia” del Centro Provinciale Missionario dei Frati Minori Conventuali del Nord Italia, che mi ha permesso di passare due settimane di servizio insieme ai frati e ad altri giovani, svolgendo l’attività di volontariato con l’ONG Jesuit Refugee Service, proprio in quei posti dove le persone hanno bisogno di aiuto. L’esperienza mi ha lasciato molti spunti di riflessione e tanti ricordi che ancora adesso fatico a mettere in ordine:
Ho vissuto un’esperienza dentro un’altra, la Bosnia da sola era un posto nuovo che suscitava molta curiosità in me. C’erano monumenti in ricordo di tragedie passate, c’erano “monumenti viventi” che avevano lasciato la loro casa e la famiglia per inseguire un sogno disperato. C’erano persone in movimento e città ferme, guerre che spingevano le prime a scappare, guerre che costrinsero le seconde a fermarsi negli anni ’90.
Che sia successo 30 anni fa, che sia successo oggi, è sempre a 5 ore di macchina da casa mia. Case costruite per metà, ferrovie abbandonate come tutti quei cani che camminavano per strada. Nelle due settimane in cui siamo stati là io ed il mio gruppo abbiamo portato vestiti ai ragazzi accampati nei boschi e nelle case abbandonate, inoltre abbiamo animato la loro vita al campo migranti tenendo aperte strutture come il container con gli strumenti da barbiere e quello con i computer.
C’era questa canzone di Guccini che mi ascoltavo in quei giorni, “Shomèr ma mi-llailah?”, ossia “Sentinella, quando finisce la notte?”. La canzone parla di un passaggio della Bibbia (Isaia 21,11) dove delle persone, in un periodo buio, chiedevano ad una sentinella quanto mancasse alla fine di quel caos. Mi sono stupito quando al campo migranti un ragazzo mi ha fatto una domanda simile, non ho saputo rispondere.
Ogni tanto ti tornano in mente gli sguardi di quelle persone, i loro racconti. Le loro storie così vive e ancora in corso, cominciate da così lontano, eppure sentite così vicine.
Eppure, di fronte a tutto quel male, di fronte a tutto quello schifo. Di fronte alle porte con scritto “finanziato dall’UE” in quel campo migranti (o era una prigione?) a 20 km dalla città, in mezzo al nulla, di fronte a quella domanda alla quale non ho saputo rispondere, di fronte a qualche ragazzo arrabbiato per tutto, di fronte alle risse, alle discriminazioni tra etnie diverse, ad Alibaba che chissà chi è ma ogni notte passa e ti ruba le cose in quel campo (Alibaba era il nome che i ragazzi davano ai ladri del campo, così bravi che non li vedevi mai). Di fronte agli spacciatori, ai poliziotti corrotti, ai vecchi che si lamentano (giustamente) se i migranti lasciano i rifiuti in giro e poi bruciano la plastica ai bordi delle strade (olè, viva l’ipocrisia!). Di fronte a storie di violenze in Iran o al bordo croato, di cani slegati, di attraversamenti del deserto e di cadaveri trovati nelle montagne iraniane, di persone che perdono tutto e devono ricominciare da capo. Di fronte a tutte queste storie tristi io stavo bene, in mezzo a tutta quella distruzione sentivo di essere carico per affrontare ogni singolo giorno, per aiutare dove potevo aiutare, per ascoltare, per imparare lingue nuove.
Paradossalmente avevo una bussola, e quando sono tornato a casa, mi sono sentito disorientato: sono tornato nella comfort zone della mia camera.
Però sono rimasto toccato da quelle esperienze e ho capito che per farle rivivere devo rimettermi in moto, non disperarmi dei piccoli problemi che assillano la mia vita e studiare per poi aiutare persone come quelle che ho conosciuto questa estate.
E questo ricalca la risposta che la sentinella dà nella canzone di Guccini, continuare a camminare, a chiedere e a tentare:
“La notte, udite, sta per finire,
ma il giorno ancora non è arrivato,
sembra che il tempo nel suo fluire
resti inchiodato.
Ma io veglio sempre, perciò insistete,
voi lo potete: ridomandate!
Tornate ancora se lo volete,
non vi stancate!”
Testimonianza di Andrea



La mia esperienza in Bosnia mi ha molto segnato, le storie, le condizioni di vita, il presente di vita che ancora stanno vivendo, i comportamenti disumani, causa di un rispetto della legge perdendo di vista il valore della persona.
Il tempo trascorso in Bosnia le prime due settimane di luglio appena passato come dicevo è stato intenso; io insieme ad altri sei ragazzi, divisi in due gruppi abbiamo vissuto due tipi di esperienze: Outreach (cercare dove si stabilivano i migranti nei boschi) e al campo profughi di Lipa.
Personalmente ho preferito Outreach, in quanto ogni mattina partivamo per andare tra i boschi e scoprire i luoghi dove erano presenti gruppi di migranti che si preparavano per partire per il “game” (come lo chiamano loro, in quanto vedono l’attraversare il confine come passare al livello successivo o venire rimandati indietro proprio come succede nei videogiochi ), tentando di oltrepassare il confine tra Bosnia e Croazia.
Ci sono persone che sono state rimandate indietro anche dodici volte e più. Inoltre i boschi in quella parte della Bosnia sono pieni di mine anti-uomo sulle quali i migranti possono incombere se non seguono mappe nelle quali vengono tracciati i percorsi sicuri, come viene fatto per i turisti, infatti una delle prime testimonianze alla quale ho assistito è stato proprio venire a conoscenza che un ragazzo partito per varcare il confine è saltato in aria proprio finendo su una mina.
Ritornando a ciò detto sopra; una striscia cospicua di bosco è stata abbattuta in corrispondenza del confine, in modo che la polizia possa controllare, (attraverso droni), l’attraversata notturna degli stessi migranti, ma nel momento i cui vengono intercettati, non vengono rimandati semplicemente indietro, ma gli vengono sequestrati, dalla medesima: documenti, soldi, cellulare e persino le scarpe e se non parlano inglese vengono addirittura picchiati violentemente.
L’organizzazione con la quale abbiamo fatto esperienza è stata la JRS (jesuit refugee service), abbiamo ricevuto una bellissima accoglienza da parte dei risposabili dell’organizzazione e da padre Stanco il gesuita che segue la missione.
Di questa esperienza mi hanno colpito tante altre storie che mi hanno segnato in profondità, in primo luogo il ragazzo più giovane che ho incontrato aveva solo dodici anni e ci ha interrogato su come noi avessimo la possibilità di studiare; oltre ad una vita normale senza troppi problemi, mentre lui ha lasciato la scuola lottando per avere una vita migliore; sono rimasto molto impressionato dall’atteggiamento di chi abbiamo incontrato: i sorrisi, il cibo offerto preparato e cucinato al fuoco con le loro stesse mani, il lasciare il proprio posto per farci sedere, per condividere le storie personali ed interessati a conoscere le nostre.
In particolare tanti ci hanno parlato dei lavori intrapresi nei diversi paesi che hanno attraversato tra cui uno personalmente mi ha mostrato delle foto di ciò che ha costruito: banchi in legno e giocattoli per gli asili. Ritornati alla sede JRS, distribuivamo zaini, vestiario, scarpe, sacchi a pelo e prodotti per l’igiene personale che venivano consegnati anche ai ragazzi che incontravamo nei boschi.
Al termine della prima settimana, ci siamo recati a Sarajevo dove abbiamo visitato il campo profughi, facendo attività con i migranti presenti oltre a conoscere insieme al direttore del campo la realtà stessa, notando una situazione di disagio e di condizioni igieniche pessime, anche se rispetto a Lipa vengono prese più in considerazione le richieste degli stessi migranti.
Ritornati a Bjhać, con il mio gruppo siamo partiti per l’esperienza al campo profughi di Lipa (situato non molto lontano da Bihać) che ci ha accompagnato sino alla fine della nostra esperienza. Il Campo è completamente in mezzo ad un bosco. Un giorno facendo un giro in un momento di pausa guardo oltre la rete di confine del campo e mi accorgo di un cartello rosso con un teschio inchiodato ad un albero, il mio sospetto è stato confermato da un migrante stesso; il bosco che circonda il campo è pieno di mine anti-uomo.
JRS gestisce due container al campo: un barber shop, dove i migranti possono tagliarsi i capelli tra di loro ed uno dove vengono messi a disposizione sei postazioni internet perché possano mantenere i contatti con le famiglie e per eventuali comunicazioni, oltre questo vengono organizzate diverse attività per riuscire a creare gruppo tra di loro; il materiale utilizzato per le attività compresi notebook, prodotti per i capelli e barba e le attrezzature vengono procurate dalla stessa JRS.
Al campo le condivisioni sono state tante in particolare nei momenti di attesa tra un turno e un altro e nei momenti di attività ricreativa. Ci sono stati diversi momenti di festa vissuti insieme ai migranti dei quali tutti siamo stati gioiosi di vivere insieme; anche con gli stessi volontari che venivano da tutta Europa. Abbiamo condiviso molto anche con gli stessi responsabili JRS.
Infine avrei un ultimo desiderio da condividere: vorrei che tutti potessero fare questo tipo di esperienza in quanto apre il cuore a comprendere cosa davvero è importanza nella vita e ad aprire la mente alla realtà delle cose.
Testimonianza di Roby


Roma – Mensa Caritas
Un altro gruppo di giovani ha vissuto un’esperienza di servizio presso la mensa diurna “Giovanni Paolo II” a Colle Oppio, in Via delle Sette Sale 30 (poco distante dal Colosseo), mensa coordinata dalla Caritas di Roma.
Si è trattato anche di un’esperienza di condivisione di fede e della vita fraterna, attraverso momenti di preghiera, di dialogo, di confronto, con alcune visite in luoghi significativi della città, catechesi e momenti di preghiera.
“Testimoni della Speranza…nel mondo”, questo il titolo della proposta missionaria fattami un po’ di mesi fa, quando io ero ancora lontana dal sapere cosa significasse conoscere Cristo e la Speranza che Lui solo può portare. Ma dopo aver incontrato nel mio cuore il Signore – grazie a un incidente che mi è capitato – il desiderio di portare agli altri la Sua salvezza e la Sua speranza si è fatto sempre più forte e allora “Testimoni della Speranza…nel mondo” ha acquisito per me un significato nuovo e non era più un titolo generico ma una chiamata personale.
L’esperienza consisteva nello svolgere una settimana di servizio presso la mensa “Colle Oppio” gestita dalla Caritas di Roma, ed è stata preceduta da tre incontri formativi tenutisi presso il convento francescano di Bologna. Lì abbiamo lavorato sul conoscere noi stessi, con le nostre qualità e i nostri limiti, sul significato del viaggio, inteso come cammino personale prima ancora che come spostamento fisico e sul conoscere l’altro. Ci siamo focalizzati in particolare sugli stereotipi e i pregiudizi di cui la nostra società è intrisa, che sono una parte integrante e spesso inconsapevole del nostro modo di pensare ma un grosso limite nella relazione con l’altro.
Questi incontri poi sono stati importanti non solo per formarci come singoli, ma anche per iniziare a conoscerci come gruppo e imparare che l’altro non è qualcuno di lontano ma in primis il fratello che mi sta accanto e con cui andrò a condividere il servizio.
Arriva agosto ed eccoci pronti a vivere la nostra esperienza: alla mensa ognuno di noi ha diversi ruoli e ogni giorno ci turniamo in modo che tutti provino i vari servizi, che vanno dal misurare la temperatura all’ingresso allo stare al registro firme, dalla distribuzione del cibo al servire l’acqua ai tavoli. Alcune mansioni permettono di stare più a contatto con gli ospiti, altre invece richiedono uno scambio più rapido, ma cerchiamo di non farci travolgere dal fare e di ricordarci il motivo principale per cui siamo lì, che non è tanto servire un piatto caldo, ma farci strumenti di Cristo per donare a chi incontriamo anche solo una briciola del suo amore.
Purtroppo la mascherina non sempre permette di mostrare il nostro sorriso né di vedere interamente il volto di chi abbiamo davanti e allora inizio a concentrarmi sugli occhi, lo “specchio dell’anima”. Questa esperienza diventa per me allora un vero e proprio tempo di “educazione allo sguardo”, mi piace chiamarla così. Imparo un po’ alla volta ad osservare chi mi arriva davanti, mentre sporgo loro il vassoio o misuro la temperatura: alcuni hanno gli occhi spenti e afflitti, altri sono nervosi, arrabbiati, alcuni apparentemente più sereni e altri ancora sembrano immersi nel loro dolore o persino nel nulla, alienati.
Non è facile stare difronte a questi sguardi e alle ferite di cui sono portatori e non nego di essermi sentita anche impotente, ma poi mi sono ricordata del Signore: il saperlo con me e il cercare di vedere la sua presenza in quegli occhi mi ha dato la forza per starvici davanti, comprendendo un po’ alla volta che Gesù non mi chiedeva qualcosa di straordinario ma che la mia semplice presenza e il mio ascolto potevano già essere dei piccoli segni di luce. Era bello infatti vedere come nel porgere agli ospiti un saluto o nel chiamarli per nome spesso i loro occhi si riaccendevano, come strappati dal vuoto in cui si trovavano, e increduli per il fatto che qualcuno riconoscesse la loro esistenza.
Fondamentale inoltre è stata la testimonianza di una suora della Missionarie della Carità che abbiamo ascoltato il penultimo giorno: ci ha ricordato infatti le parole pronunciate da Gesù sulla croce che dice “ho sete”, ho sete di te, un Cristo privato di tutto ma non del desiderio di amare, e allora servire un bicchiere d’acqua non era più solo un dissetare in senso fisico ma è diventata per me occasione di incontro con il Signore che mi chiedeva di servirlo in quel povero.
Quello che mi porto a casa da questo servizio è l’aver scoperto che c’è un mondo di povertà che mi e ci sta sempre dinanzi ma che il più delle volte passa inosservato e nella nostra più totale indifferenza. Desidero profondamente fare memoria di quello che ho vissuto in modo che la consapevolezza che ho acquisito e la speranza di cui ciascuno di noi può essere portatore vivano in me ogni giorno. E la Speranza nuova è proprio questa, è sapere (perché l’ho vissuto) che non c’è povertà in cui il Signore non sia presente e che uno sguardo, un sorriso, una parola donati con gioia e amore possono davvero ridonare vita a me e all’altro perché Cristo è veramente Risorto ed è Risorto per tutti.
Testimonianza di Luisa

Quando ho accettato di partecipare all’esperienza missionaria a Roma, proposta dai frati francescani presso la mensa della Caritas, mai avrei pensato che avrebbe potuto colpirmi e cambiarmi così in profondità. La settimana che ho vissuto posso dire sia stata una delle più belle della mia vita, ed è incredibile pensare come sia nato tutto da un primo incontro formativo svoltosi a Bologna nel mese di maggio, a cui ho partecipato per puro caso, e da cui sono tornata entusiasta.
Inizialmente avevo molte paure e spesso mi domandavo se avessi fatto la scelta giusta a dire di sì a questa esperienza. Non sapevo se sarei stata all’altezza e se ne sarei stata capace. Al tempo stesso non avevo aspettative, non riuscivo a immaginare come sarebbe potuta andare, come l’avrei vissuta, quanto mi avrebbe cambiata.
Poi la settimana di servizio è arrivata e mi ha stravolto completamente. Non avevo idea di come sarebbero state le persone che mi sarei trovata davanti, e quello che mi ha colpito subito è stato vedere la diversità dei volti che ogni giorno passavano per la mensa, ma soprattutto la gentilezza e la cordialità di quasi ognuno di loro.
Questo è stato ciò che più mi ha sorpreso, vedere le persone che mi ringraziavano sinceramente solo perché portavo loro un po’ d’acqua. Infatti una delle cose che ho capito stando una settimana con loro è che quando non hai niente non dai nulla per scontato, e questo ti porta ad essere grato per ogni attenzione che ricevi, cosa che purtroppo manca nella società di oggi, dove ormai la maggior parte delle volte si dice grazie solo per cortesia.
Ancora, mi ha colpito molto il fatto che quando li salutavi e davi loro il buongiorno, loro sempre rispondevano augurando anche a te buongiorno e alcuni addirittura dicevano “buon lavoro”. Ed io in tutti i giorni di servizio non sono mai riuscita ad abituarmi a questo atteggiamento perché per me era inspiegabile che un povero, con le sofferenze, la rabbia e il dolore che ogni giorno si porta dietro avesse voglia di rispondere al mio saluto, e molti lo facevano anche sorridendo e a me questo gesto riempiva sempre il cuore.
Il servizio alla mensa si suddivideva in varie mansioni, chi accoglieva gli ospiti, chi li registrava, chi serviva loro il pasto e chi stava in sala tra i tavoli dove si aveva anche l’occasione di scambiare qualche parola. A volte però si rischiava di cadere nella ripetitività, io stessa mi sono ritrovata più di una volta a fare le cose in modo automatico, dimenticandomi di chi avevo di fronte: quando me ne accorgevo, cercavo di ricordarmi che in ogni volto che mi passava davanti potevo vedere il volto del Signore e che anche un semplice sorriso avrebbe potuto cambiare la loro giornata e farli sentire anche solo per un momento amati e accettati.
Ho capito infatti che loro non hanno bisogno tanto di soldi, di cibo, di una casa, quanto di amore: di fronte alla povertà c’è sempre tanta indifferenza ed è per questo che una delle prime cose che loro desiderano è qualcuno che si accorga della loro presenza e che riconosca la loro esistenza.
La cosa più bella di tutte sono stati i dialoghi che ho intrattenuto con alcuni ospiti. È ciò che di più prezioso mi porto nel cuore, non potrò mai dimenticarli, le loro parole mi hanno insegnato tantissimo, mi hanno ricordato cos’è davvero importante nella vita, non i soldi, ma i rapporti e le relazioni, che è ciò che arricchisce veramente i nostri cuori.
Ho capito che noi esistiamo non per noi stessi ma per essere dono per gli altri e a esperienza conclusa, di certo posso confermare che c’è più gioia nel dare che nel ricevere.
Quello che mi porto a casa sono i volti di ogni persona che ho incontrato durante i giorni di servizio, i loro ‘grazie’ che valgono più di mille parole, i loro sorrisi per tutte le volte che ricevevano un nostro saluto, la loro gentilezza e il loro non dare nulla per scontato, che è una cosa che dovremmo imparare tutti, e infine la presenza del Signore che ho sentito molto forte in ogni giornata e che mi ricordava di non avere mai paura perché lui era sempre con me.
A conclusione di ciò, la nuova speranza che mi porto a casa è di riuscire a vivere tutti i giorni della mia vita come ho vissuto questa settimana di servizio, cercando di vedere il Signore nel volto di ogni persona che mi sta di fronte, non dando nulla per scontato e godendo di ogni giorno che mi viene donato, ricordandomi sempre di essere grata per tutto quello che ho e che ricevo, ma soprattutto impegnandomi a prestare lo sguardo a chi tutti i giorni è costretto a vivere per strada, nella povertà, e che ha solo bisogno di qualcuno che si ricordi della sua esistenza e che gli porga un saluto o anche solo un sorriso.
Testimonianza di Elena

Cile
Un terzo gruppetto di giovani è stato accompagnato dai nostri frati a fare un’esperienza presso le comunità dei nostri frati francescani in Cile e la partecipazione ai progetti dove sono impegnati i nostri missionari francescani.


“Ma perché proprio il Cile?”. Era la domanda più gettonata quando raccontavo di questa esperienza. E la risposta era: “Per conoscenze trasversali”, quasi a nascondere un “per caso” che sarebbe stato ancor meno capito.
La realtà però è questa: da un lato c’era il mio desiderio di cercare nuovi stimoli, nuove prospettive, nuovi orizzonti e dall’altro c’erano le conoscenze di sr. Gloria, un’amica, sorella e madre che mi accompagna nel cammino di fede.
Quando le chiesi di voler fare un’esperienza missionaria, lei ebbe l’intuizione di chiamare fra Tullio, francescano conventuale che vive da anni in Cile, il quale le girò il contatto di fra Valerio, responsabile del Centro Provinciale Missionario dei Frati Minori Conventuali del Nord Italia, perché c’erano già dei giovani che si stavano organizzando per partire in agosto per l’esperienza “Testimoni della Speranza”. Fu una notizia incredibilmente bella per me! Partire insieme ad altri ragazzi, condividere un’esperienza, camminare insieme.
E questo è stato: abbiamo percorso le strade di Santiago del Cile, di notte, per portare cibo ai senza tetto che stanno nel comune di San Ramon, abbiamo fatto servizio in diversi comedor (mense solidali) in cui venivano alcune persone per mangiare il loro unico pasto della giornata, abbiamo giocato con i bambini di una escolita, abbiamo riordinato uno spazio del convento per farlo diventare un piccolo oratorio, e molto altro ancora.
La cosa più bella è stata fare tutto questo insieme. Non solo tra di noi italiani, ma anche insieme alla gente del posto. Ogni “missione” l’abbiamo condivisa con le persone che giornalmente offrono il loro servizio lì, dai ragazzi della pastorale giovanile universitaria, alle signore che si occupano della Caritas e del catechismo, ai volontari laici che hanno fatto una scelta di vita missionaria.
Ogni esperienza ci ha permesso di conoscere realtà diverse ma ci ha anche dato l’opportunità di entrare nella quotidianità della gente e di scoprirne la ricchezza. Ogni persona che abbiamo conosciuto ci ha donato un pezzetto della propria storia, della propria fede, della propria Vita.
È in questo incontro continuo che si è articolato il viaggio in Cile. Nelle quattro settimane, trascorse insieme ai frati, abbiamo potuto assaporare sia la vita comunitaria che la vivacità della realtà della parrocchia. Tutti i giovedì c’era l’appuntamento con il circo, uno spazio dedicato ai bambini, in cui poter giocare, divertirsi stando insieme e anche imparare alcune acrobazie e giocolerie proprie dell’arte circense, come il trapezio o la danza aerea, che Felipe, un’artista del posto, insegnava loro.
A seguire, il giovedì sera, avevamo la distribuzione del cibo alle persone che vivono in strada. Partivamo in piccoli gruppi, insieme ai ragazzi della pastorale giovanile con le porzioni di cibo preparate dalle signore della Caritas, e le portavamo ai senza tetto che incontravamo per strada, condividendo con loro non solo il pasto ma anche due parole sulla giornata trascorsa o sulle vicende personali che li avevano portati a vivere in un parco o su un marciapiede.
Tra le varie attività della parrocchia c’è anche quella di una fondazione che si occupa di sostegno ai migranti haitiani e venezuelani che da qualche anno arrivano in Cile in cerca di una vita migliore. Come gruppo missionario, abbiamo avuto la possibilità di vedere come lavorano queste strutture di accoglienza non solo a livello assistenziale, ma fornendo tutti gli strumenti per garantire un futuro e delle opportunità a tutti quelli che arrivano senza nient’altro che la speranza di un cambiamento radicale della loro condizione di vita.
La nostra esperienza in Cile però è stata anche un vero e proprio viaggio alla scoperta di una nazione lunga e stretta, che si nasconde tra i grandi stati dell’America Latina. Abbiamo visitato il centro del paese e le due città principali, Santiago e Valparaìso, siamo stati al sud, a Valdivia, con tanto di tour in barca sui principali fiumi della città e abbiamo avuto la possibilità di conoscere ancor più da vicino la storia di un popolo, quello dei Mapuche, che vive in quelle zone da prima che noi occidentali ne scoprissimo l’esistenza.
In una parola, questa missione è stata una scoperta. In tutti i sensi: scoperta di un mondo così lontano dal nostro e anche così diverso. Scoperta di persone, di tradizioni e di culture nuove. Scoperta degli estremi e dei contrasti presenti in ogni angolo del Cile: le vette altissime delle Ande e la vastità dell’oceano Pacifico, il deserto del nord e i fiumi del sud, la grande ricchezza e l’estrema povertà. Una scoperta di orizzonti nuovi, molto più larghi di quello potevo immaginare.
Testimonianza di Angela



Ho sempre sognato andare in Cile, un paese che mi ha affascinato per la forma e i paesaggi naturalistici che vanno dal deserto ai ghiacci dall’antartico. E quest’anno il mio sogno si è realizzato.
Sono partito dall’Europa il 19 luglio e sono rimasto in Cile per un mese e mezzo. Un tempo di fatto corto per entrare in una realtà missionaria ma comunque significativo per assaporare e iniziare a conoscere un paese dell’emisfero australe.
Ho notato subito di essere in un luogo nuovo, perché le montagne, le pianure le abbiamo anche noi ma il semplice fatto di non avere come riferimento le nostre costellazioni notturne e la presenza di specie di animali tipiche del posto e che si possono vedere solo nelle foto; ecco, questo è stato un elemento che mi ha aiutato ad accogliere il fatto di essere da un’altra parte.
È stata anche la prima volta che uscivo dal continente europeo ed ero molto emozionato a raggiungere il sud America per potere conoscere il popolo cileno con le sue specificità. Mi ha colpito come siano molto calorosi e accoglienti con la forza di essere felici nonostante le difficoltà quotidiane. Un popolo religioso che ama coltivare la propria fede personalmente. Patriottici e legati alle proprie origini, mettono al centro come valore primario la persona. Infatti prima di ogni incontro o appuntamento è necessario condividere la giornata o qualcosa del vissuto e solo poi si può iniziare l’incontro. Significativo è infatti l’impostazione di uno dei pasti della giornata: la “once”, la quale prevede, nel tardo pomeriggio, un te accompagnato da panini, cibi salati e dolci in condivisione al centro. Questo è un segno di come la convivialità e lo stare insieme in modo informale sia al centro della cultura cilena.
L’esperienza missionaria mi ha permesso di passare dalla domanda chi è il mio prossimo a chi si è fatto prossimo. Ho cambiato la prospettiva perché per quanto un missionario possa aiutare qualcuno a camminare nella via della fede entrando nella cultura del paese, le persone dovranno essere avviate ad un’autonomia. Ho sperimentato come il mio bagaglio culturale che porta a gesti per entrare in relazione con Dio, non è l’unico e ho aperto il cuore a Gesù spogliandolo di tradizioni che per quanto fondamentali sono legate al mio paese. Ammetto però che non è semplice accostare le proprie usanze per accoglierne di nuove e intuire che in tutte c’è una bellezza che è quella di Gesù.
In Cile mi sono sentito a casa, accolto per chi sono e desideroso di conoscere chi incontravo e, nonostante la grande difficoltà con la lingua, non mi sono mai sentito straniero ma parte di un mondo da scoprire seppur in poco tempo. Un po’ mi manca perché le intuizioni che ho ricevuto su questo popolo non ho potuto viverle a lungo ma per ora, le affido attraverso la preghiera, ai missionari già presenti a Santiago e Curicò, i quali si stanno impegnando molto con dedizione e responsabilità.
Testimonianza di Alberto



Anche. Io. Tanto. Tempo. Faccio parte. Ofs ho avuto 1.richiamo.vocazionale francescano. Mi fa. Piacere che. Ancora oggi. Ci. Sono. Nuove leve. Vocazionale francescani. Dio li benedica