Oggi ascoltiamo una testimonianza missionaria che ci arriva dalla Bosnia, e ci fa chiedere: ma in fondo, chi è il mio prossimo?
31 ottobre, ultimo giorno del Mese Missionario! E non potevamo che concludere in bellezza con una splendida testimonianza, che ci arriva da uno dei nostri giovani in cammino.
Si tratta di Mattia, 21 anni, originario di Rovigo, uno dei postulanti (che cos’è il postulato? Scoprilo qui!) che vive con noi frati nel nostro convento di Brescia.
Insieme ad altri giovani e a due frati questa estate, dal 9 al 23 luglio, sono stati in Bosnia, a vivere un’esperienza di servizio con i profughi della “rotta balcanica“.
Diamo allora direttamente la parola a Mattia, che ci racconta questa esperienza così potente, attraverso la lente di un brano evangelico molto conosciuto, quello del buon samaritano (Lc 10, 25-37).
Buona lettura e buon cammino a tutti.
fra Nico – franico@vocazionefrancescana.org

“Allora sembra anche più difficile attraversare questa terra di nessuno, la quale invece, è la terra più nostra, santificata dalle lacrime più ineffabili” (don Primo Mazzolari).
Bihàc, 9-23 Luglio 2022. Ore 8.30. Mattina soleggiata, stavamo partecipando alla Messa nella parrocchia s. Antonio di Padova nella periferia di Bihàc, una cittadina bosniaca situata a pochi km dal confine croato. La piccola comunità cristiana era intenta ad animare con entusiasmo la celebrazione.
Eravamo arrivati la sera prima. Dopo esserci sistemati presso l’appartamento che l’organizzazione JRS (Jesuit Refugee Service) aveva preparato per noi, avevamo deciso di partecipare alla Messa con la presenza del parroco locale e di padre Stanco, il gesuita che faceva capo ai dipendenti e volontari dell’ong con la quale avremmo svolto il nostro servizio.
Era iniziata la missione. Confido che la timidezza iniziale sparì quando, con mia grande sorpresa, venne letto il Vangelo del giorno. La parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-37).
Posso riassumere la forte esperienza vissuta nelle due settimane in Bosnia utilizzando alcune parole, alcune frasi che mi avevano fin da subito colpito, che avevano provocato il mio cuore:
“«E chi è il mio prossimo?»”.
Questa domanda me la sono posta spesso: per chi il nostro gruppo di volontari (composto da due frati e altri ragazzi) avrebbe dovuto entrare in relazione?
Eravamo chiamati a fare servizio a stretto contatto con migranti, rifugiati e profughi in uno dei luoghi interessati dalla cosiddetta “rotta balcanica”. La tratta percorsa, tra sofferenze, fatiche, ingiustizie e persecuzioni, da tutte quelle persone che, partendo prevalentemente dalle zone del medio oriente, tramite i paesi balcanici, tentano di attraversare il confine tra Bosnia e Croazia così da entrare finalmente nell’Unione Europea. Loro, questa realtà è stata il “nostro prossimo”.
Le giornate si suddividevano principalmente in due servizi: una parte di noi, insieme ai dipendenti dell’organizzazione andavano nel cosiddetto “Outreach”, ovvero, alla ricerca, nei boschi circostanti il confine croato, dei profughi che, accampati in rifugi di fortuna, cercavano un modo per oltrepassare il confine e avevano bisogno di generi di prima necessità. Noi ci occupavamo di portare vestiti e l’occorrente per l’igiene personale.
I restanti del gruppo, invece, svolgevano aiuto all’interno del campo profughi di Lipa a 20 km dalla cittadina di Bihàc. In quest’ultimo erano presenti due container dedicati, uno al taglio capelli e barba dei migranti presenti nel campo, l’altro alla consultazione di computer e strumenti tecnologici per permettere ai profughi di mettersi in contatto con le loro famiglie.

“«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.
Posso dire che l’esperienza che mi ha segnato di più e ho potuto vivere più a lungo è stata all’interno del campo. Per arrivarci in macchina dopo circa venti minuti di viaggio, bisognava addentrarsi all’interro di una strada sterrata nel bosco priva di qualsiasi indicazione. Piano piano, raggiungendo il campo, gli alberi diminuivano e si apriva davanti a noi un grande spiazzo dove, con precisione e compostezza, si trovavano le baracche e i container che ospitavano i migranti.
Operando prevalentemente nel container informatico, quasi per caso, abbiamo iniziato a fare alcuni piccoli lavori manuali, banali giochi con la carta, i colori e diversi materiali. Quel piccolo momento di creatività si è rivelato invece di grande importanza per tanti migranti.
Molto semplicemente, anche con il solo gesto di passare la colla o le forbici, sono ricucito ad instaurare un bel dialogo con alcuni di loro che si sono aperti raccontandomi la loro storia, le loro vicende, i traumi, le sofferenze patite mentre cercavano di “scendere dalla loro Gerusalemme, dal paese natale” per andare a “Gerico”, in un luogo distante dalla guerra, lontano dal rumore assordante delle bombe, in un posto in cui sentirsi sicuri e liberi di intraprendere sul serio una vita nuova.
Purtroppo tante di queste storie non avevano un lieto fine, tanti amici e conoscenti dei ragazzi con cui parlavo “incapparono nei briganti”. Quando si sente parlare esternamente di questi fatti forse, io in primis, non veniamo toccati, ma quando si ascolta la voce tremante e si vedono gli occhi lucidi di chi lo ha vissuto, veramente ci si interroga su cosa, come, in che modo si può portare un aiuto, si può essere testimoni della speranza, come recita il titolo delle missioni.
“Passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione”.
Con un po’ di timidezza iniziale avevo iniziato a capire, più che il fare, contava lo stare con loro. L’ascolto è stato una dei modi di entrare in contatto con tanti profughi, anche giovanissimi, che avevano bisogno di confidare, condividere preoccupazione, traumi e anche tante sofferenze, non tanto però per una questione di buonismo e pietà quanto, invece, di compassione, per cum-patire insieme e cercare di dire una parola di conforto anche in quel contesto, anche in quel campo che tutto sembrava fuorché una casa accogliente.
“Gli si fece vicino”.
Accogliere e essere accolti. Nella mia difficoltà anche di lingua a volte, mi sono sentito più accolto io di quanto facessi per loro. Mi rimarrà sempre impresso un giorno in cui, pur di rimanere a parlare con noi, un ragazzo afgano di 18 anni voleva saltare il pranzo distribuito alla mensa (uno dei pochi pasti distribuiti nell’arco della giornata). Noi gli abbiamo detto di andare pure. Lui è tornato in velocità e, vedendo che non ci eravamo portati nulla da mangiare, immediatamente ci ha donato il suo cibo per non farci sentire in difetto nei suoi confronti.
Penso che questo esempio concreto riassuma più di mille parole. Veramente ho sperimentato, prima che il mio, il loro “farsi vicini” abbattendo qualsiasi tipo di ostacolo, dalla lingua alla religione, dalla cultura al paese di origine. In questi migranti ho trovato e rivisto nei loro occhi veramente il volto del Padre, di un Cristo che abita nella periferia del mondo, si priva del suo cibo per donarlo al fratello; un Cristo con gli occhi segnati dalle lacrime, dalle occhiaie per le notti passate a cercare di attraversare il confine, dalle ferite e i lividi per le percosse subite durante il passaggio al confine, dai piedi scalzi impolverati tra la terra del mondo.

“Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso»”.
Al termine del servizio al campo, sono andato via con emozioni bivalenti: da un lato il dispiacere nel sapere che tanti di quei migranti non li avrei più rivisti, dall’altro la rassicurazione che forse anche il nostro passaggio è servito a qualcosa, seppur piccolo, breve, potrebbe essere stato d’aiuto per alleviare le difficoltà che queste persone incontrano giornalmente.
Venivo via da un campo che piano piano, giorno dopo giorno, si stava svuotando. Erano più di un centinaio i profughi che erano partiti alla volta del “game” – come lo chiamavano loro – del “grande gioco” che avrebbe stabilito chi sarebbe riuscito a passare in Europa e chi, rispedito in dietro, a volte derubato di tutto, sarebbe dovuto tornare a Lipa.
Nel viaggio di ritorno, condividendo l’esperienza con una delle dipendenti dell’organizzazione, raccontavo che ero rimasto impressionato dall’apertura dei migranti nei nostri confronti, del loro starci vicino anche se parliamo lingue diverse, se crediamo in religioni diverse. Lei, quasi all’improvviso mi disse:
“io sono mussulmana ma credo che Dio è il Dio di tutti, indipendentemente da cosa crediamo, a noi, a me nel mio lavoro, spetta cercare, impegnarmi giorno per giorno a fare del bene, perché Dio guarda non tanto alle nostre provenienze o confessioni quanto a quello che facciamo per testimoniare agli altri che l’Amore esiste ancora”.
Velocemente mi tornava in mente, dopo aver sentito questo, l’ultima frase del Vangelo col quale avevamo iniziato la missione: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
Questo mi sono portato a casa: i volti, le storie, le fatiche, le paure, le sofferenze di quella, come scrive don Primo Mazzolari, terra di nessuno, di una terra che vede passare vite diverse, culture diverse, un luogo che diventa la terra più nostra se sappiamo riconoscere il grido di questa gente e diventarne porta voci, se riconosciamo Cristo stesso in mezzo a loro, se siamo disposti veramente a chiederci ogni giorno, nella concretezza delle nostre scelte quotidiane “chi è il mio prossimo?”.
Mattia – info@vocazionefrancescana.org
