Si celebra oggi nel mondo francescano la festa di Santa Chiara d’Assisi, che scelse di mettersi sulle orme di Francesco per seguire più da vicino il Cristo povero e crocifisso.
A lei si ispirano tutte le Clarisse sparse nei tanti monasteri del mondo. Esse sono testimoni per tutti che Dio c’è, che per Lui si può spendere l’intera vita, che Egli cammina con noi e bussa con pazienza e amore al cuore di ciascuno. Queste donne “alternative” continuano anche in questo nostro tempo così secolarizzato, ad essere un misterioso e inaspettato richiamo ad una vita di contemplazione per molte giovani.
Sorprende vedere quante di esse appena diplomate, ragazze e donne affermate, professioniste, decidano di aderire ad una strada così elevata. Ho parlato spesso di questa vocazione in svariati post che potete rileggere E’ una vita contro corrente declinata sul primato dell’interiorità e di una relazione speciale con il Signore. E’ una scelta che certo provoca e interroga, ma anche conferma che i valori veri sono ancora importanti: non solo i giovani li capiscono, ma li amano fino a spendersi totalmente per essi.
Di seguito riporto alcuni testi proposti per la novena in preparazione alla festa inviatemi da suor Francesca giovane suora delle Clarisse di Camposampiero (Pd) che ringrazio di cuore con la sua bella comunità. Si tratta di “nove lumi accesi” da Chiara per seguire Cristo. Il confronto è fra la “Legenda sanctae Clarae” di Tommaso da Celano (primo biografo) e la “Gaudete et Exultate” di papa Francesco.
fra Alberto – info@vocazionefrancescana.org
1) La gioia
Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato […]. Per cui alla carità segue la gioia». Abbiamo ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1 Ts 1,6). Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4). Ci sono momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale, che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto». È una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani. (GE 122.125)
Mentre in genere ogni grave afflizione dei corpi genera l’afflizione anche degli animi, ben diversamente in Chiara: conservava infatti in ogni sua mortificazione un volto festivo e gioioso, tanto che sembrava o non sentire o prendersi gioco delle angustie del corpo. Dal che chiaramente si può capire come la santa letizia di cui abbondava interiormente rabboccava anche esteriormente, perché l’amore del cuore rende lievi i flagelli del corpo. (FF 3196)
2) La pazienza
Una delle caratteristiche della santità è rimanere centrati, saldi in Dio che ama e sostiene. A partire da questa fermezza interiore è possibile sopportare, sostenere le contrarietà, le vicissitudini della vita, e anche le aggressioni degli altri, le loro infedeltà e i loro difetti: «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Questo è fonte di pace che si esprime negli atteggiamenti di un santo. Sulla base di tale solidità interiore, la testimonianza di santità, nel nostro mondo accelerato, volubile e aggressivo, è fatta di pazienza e costanza nel bene. È la fedeltà dell’amore, perché chi si appoggia su Dio (pistis) può anche essere fedele davanti ai fratelli (pistós), non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia trascinare dall’ansietà e rimane accanto agli altri anche quando questo non gli procura soddisfazioni immediate. (GE 112)
Il vigore della carne era venuto meno davanti all’austerità della penitenza praticata nei primi anni e poi, nei tempi successivi, era stato provato dalla malattia; così si potrebbe dire che, quand’era sana, è stata arricchita dai meriti delle opere e, quando divenne malata, fu arricchita dai meriti delle sofferenze. E infatti la virtù nell’infermità si accresce. Quanto ammirevole fosse la sua virtù, resa perfetta dalla malattia, appare soprattutto in questo, che durante ventotto anni di sofferenze quotidiane non si udì un brontolio, né una lamentela, ma dalla sua bocca uscì sempre una santa conversazione e il rendimento di grazie. (FF 3235-3236)
3) L’audacia
La santità è parresia: è audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo. Perché ciò sia possibile, Gesù stesso ci viene incontro e ci ripete con serenità e fermezza: «Non abbiate paura» (Mc 6,50). «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Queste parole ci permettono di camminare e servire con quell’atteggiamento pieno di coraggio che lo Spirito Santo suscitava negli Apostoli spingendoli ad annunciare Gesù Cristo. Audacia, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico, tutto questo è compreso nel vocabolo parresia, parola con cui la Bibbia esprime anche la libertà di un’esistenza che è aperta, perché si trova disponibile per Dio e per i fratelli (cfr At 4,29; 9,28; 28,31; 2 Cor 3,12; Ef 3,12; Eb 3,6; 10,19). La parresia è sigillo dello Spirito, testimonianza dell’autenticità dell’annuncio. È felice sicurezza che ci porta a gloriarci del Vangelo che annunciamo, è fiducia irremovibile nella fedeltà del Testimone fedele, che ci dà la certezza che nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8,39). (GE 129.132)
Il signor papa Gregorio di felice memoria, uomo tanto degno del suo ministero quanto venerabile per meriti, amava grandemente con paterno affetto questa santa. Ma quando egli volle convincerla ad acconsentire ad avere, a causa dell’incertezza dei tempi e i pericoli del mondo, dei possedimenti, che lui stesso le offriva generosamente, quella con animo fermissimo si rifiutò e in nessun modo accettò. Al che il pontefice rispose: «Se è per il voto che temi, noi ti sciogliamo dal voto»; e quella disse: «Santo padre, per nulla mai desidero essere sciolta dalla sequela di Cristo».(FF 3187).
4) In comunità
La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri. […] Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri «perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù». La comunità è chiamata a creare quello «spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto» (S. Giov. Paolo II). Condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria. (GE 141.142)
C’era una volta in monastero un solo pane, mentre si avvicinava l’ora della fame e del pranzo. Chiamata quella che doveva servire, la santa le comanda di dividere il pane in due parti: una da mandare ai frati e l’altra da conservare dentro per le sorelle. Della metà che era stata conservata ordina che se ne facciano cinquanta fette, secondo il numero delle «signore», e che vengano loro servite alla mensa della povertà. Al che la figlia devota rispondeva: «Qui sarebbero necessari gli antichi miracoli di Cristo per far sì che si riesca a fare cinquanta parti di un pezzo di pane tanto piccolo». Ma la madre rispose dicendo: «Figlia, fa’ con fiducia quel che ti dico». Si affretta la figlia a eseguire i comandi della madre, mentre si affretta la madre a rivolgere pii sospiri al suo Cristo per le figlie. Per intervento divino quella piccola quantità crebbe tra le mani di quella che la divideva, cosicché ciascuna nella comunità ricevette una porzione abbondante. (FF 3189)
5) La povertà
Le ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si priva dei beni più grandi. Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità. Luca non parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (cfr Lc 6,20), e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia. In questo modo, ci chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è fatto povero» (2Cor 8,9). Essere poveri nel cuore, questo è santità. (GE 68.70)
La povertà di spirito, che è la vera umiltà, concordava con la povertà di tutte le cose. E anzitutto, all’inizio della sua conversione, fece vendere l’eredità paterna che le era arrivata e del ricavato nulla trattenne per sé e tutto diede ai poveri. Quindi, abbandonato fuori il mondo, con la mente arricchita interiormente, si incamminò alleggerita, senza sacco, dietro al Signore. Da allora iniziò un amore così grande e strinse un patto con la santa povertà che non volle avere niente altro che Cristo Signore e niente permise che le sue figlie possedessero. Le esorta a conformarsi, nel loro piccolo nido di povertà, a Cristo povero, che la madre poverella depose piccolino in un angusto presepe. E questa memoria in particolare poneva sul suo petto, come fosse una collana d’oro, affinché la polvere delle cose terrene non entrasse nella sua interiorità. (FF 3183.3185)
6) L’umiltà
L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La santità che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio: questa è la via. L’umiliazione ti porta ad assomigliare a Gesù, è parte ineludibile dell’imitazione di Cristo: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1Pt 2,21). Egli a sua volta manifesta l’umiltà del Padre, che si umilia per camminare con il suo popolo, che sopporta le sue infedeltà e mormorazioni (cfr Es 34,6-9; Sap 11,23-12,2; Lc 6,36). Per questa ragione gli Apostoli, dopo l’umiliazione, erano «lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (At 5,41). Non mi riferisco solo alle situazioni violente di martirio, ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore: «Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio» (1Pt 2,20). Non dico che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui. Questo non è comprensibile sul piano naturale e il mondo ridicolizza una simile proposta. È una grazia che abbiamo bisogno di supplicare: “Signore, quando vengono le umiliazioni, aiutami a sentire che mi trovo dietro di te, sulla tua via”. (GE 118.119.120)
Chiara, pietra primaria e nobile fondamento del suo Ordine, volle porre sin dall’inizio l’edificio di tutte le virtù sul fondamento della santa umiltà. Promise infatti al beato Francesco la santa obbedienza e a tale promessa mai venne meno. Invero, tre anni dopo la sua conversione, declinando il nome e l’ufficio di abbadessa, volle umilmente essere in basso piuttosto che essere in alto e tra le ancelle di Cristo più volentieri servire che essere servita. Per ordine del beato Francesco accettò tuttavia il governo delle «signore»: per la qual cosa nel suo cuore nacque timore, non orgoglio e crebbe il servizio, non l’indipendenza. Perché, quanto più sembra in alto per una superiorità apparente, tanto più nella sua stima si colloca in basso e si fa pronta al dovere e umile nell’aspetto esterno. (FF 3179)
7) La parola
La lettura orante della Parola di Dio, più dolce del miele (cfr Sal 119,103) e «spada a doppio taglio» (Eb 4,12) ci permette di rimanere in ascolto del Maestro affinché sia lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino (cfr Sal 119,105). Come ci hanno ben ricordato i Vescovi dell’India, «la devozione alla Parola di Dio non è solo una delle tante devozioni, una cosa bella ma facoltativa. Appartiene al cuore e all’identità stessa della vita cristiana. La Parola ha in sé la forza per trasformare la vita». L’incontro con Gesù nelle Scritture ci conduce all’Eucaristia, dove la stessa Parola raggiunge la sua massima efficacia, perché è presenza reale di Colui che è Parola vivente. Lì l’unico Assoluto riceve la più grande adorazione che si possa dargli in questo mondo, perché è Cristo stesso che si offre. E quando lo riceviamo nella comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli permettiamo di realizzare sempre più la sua azione trasformante. (GE 156-157)
Attraverso devoti predicatori provvede per le sue figlie l’alimento della parola di Dio, della quale non si procura la parte peggiore. Infatti ascoltando la santa predicazione è tanta l’esaltazione da cui è pervasa e tanta è la memoria del suo Gesù in cui si delizia, che una volta, mentre predicava frate Filippo da Atri, un bambino bellissimo apparve presso la vergine Chiara e per gran parte della predicazione la divertiva con le sue dimostrazioni di gioia. E la sorella che aveva meritato di vedere tali cose della madre, dopo aver percepito quell’apparizione, sentì una dolcezza inesplicabile. Benché Chiara non fosse una letterata, le piaceva ascoltare le predicazioni colte, sapendo che nel guscio si nasconde il nocciolo delle parole, che lei coglieva con sottigliezza e percepiva con gusto. Sapeva cogliere, in qualsiasi frase di chi parlava, quello che giova all’anima, sapendo che ci vuole non minore prudenza per mangiare il frutto di un nobile albero che per cogliere talvolta un fiore dalla rude spina. (FF 3230-3231)
8) La preghiera
Malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore. La preghiera fiduciosa è una risposta del cuore che si apre a Dio a tu per tu, dove si fanno tacere tutte le voci per ascoltare la soave voce del Signore che risuona nel silenzio. Ricordiamo che «è la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo». […] E se davanti al volto di Cristo ancora non riesci a lasciarti guarire e trasformare, allora penetra nelle viscere del Signore, entra nelle sue piaghe, perché lì ha sede la misericordia divina. (GE 147.149.151)
Come era quasi morta nella carne, così era anche estranea al mondo e teneva occupata la sua anima continuamente nelle sacre orazioni e nelle lodi di Dio. Aveva già fissato lo sguardo ardentissimo del suo desiderio interiore nella Luce e, avendo trasceso la sfera dei confini terreni, apriva del tutto il suo intimo ad essere inondato di grazie. A lungo, dopo compieta, prega con le sorelle e le sgorgano profluvi di lacrime che stimolano quelli delle altre. Poi, mentre le altre andavano a dare riposo alle stanche membra sui duri giacigli, ella restava vigile e, quando le altre erano prese dal sonno, lei rimaneva invitta nella preghiera, per poter percepire furtivamente con il suo orecchio il soffio del sussurro di Dio. Quando ritornava gioiosa dalla santa orazione, dal fuoco dell’altare del Signore riportava parole calde, tali che accendevano il petto delle sorelle. Esse infatti notavano la grande dolcezza che usciva dalla sua bocca e il suo volto appariva più luminoso del solito. Certamente Dio, nella sua dolcezza, aveva preparato una mensa alla poverella e la luce vera, che nella preghiera aveva riempito la sua mente, si rivelava fisicamente all’esterno. (FF 3197.3199)
9) La carità
La fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza la vanità e rende possibile la mitezza del cuore. Il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli ed evita la violenza verbale che distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro con gli altri, ma piuttosto li considera «superiori a sé stesso» (Fil 2,3). La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre. A volte, per un dono dell’amore del Signore, in mezzo a questi piccoli particolari ci vengono regalate consolanti esperienze di Dio. (GE 116.145)
Questa venerabile abbadessa non soltanto amò le anime delle sue figlie, ma anche servì i loro fragili corpi con una grande attenzione di carità. Infatti spesso, durante il freddo della notte, copriva di propria mano quelle che dormivano ed ebbe riguardo per le invalide, che vedeva incapaci di conservare l’austerità comune, volendo che fossero contente di un regime di vita più moderato. Se qualcuna era turbata da una tentazione, se qualcun’altra, come può accadere, era presa da una mestizia, in segreto, chiamatele a sé, con lacrime le consolava. Talvolta si metteva ai piedi delle sofferenti per alleviare con carezze materne la forza del dolore. E le figlie, non ingrate, ripagano con tanta devozione questi benefici. Contemplano nella madre l’affetto di carità, riveriscono nella maestra la cura del suo incarico, seguono nella pedagoga la rettitudine del cammino e ammirano nella sposa di Dio la presenza di ogni santità. (FF 3233-3234)

presso Cristo
tanti alla penitenza
(LegSC 48 – FF 3260)