Oggi condividiamo con voi la testimonianza di fra Gilberto Depeder, uno di noi, frati francescani minori conventuali della basilica di sant’Antonio a Padova. Ci racconta la sua esperienza con i ragazzi di una “casa famiglia“, dove davvero lui è “lo zio frate“. Grazie davvero, caro Gilberto, per queste parole preziose condivise con noi!
Tra i vari mestieri che può fare un frate… c’è anche quello di zio. Zio adottivo, in questo caso; o meglio, zio affidatario.
Aria di casa, profumo di famiglia
Un luogo nel quale mi trovo sempre subito a casa, dove respiro ogni volta aria di famiglia, è la Casa Famiglia L’Arco. Una coppia – Silvia e Michele – con due figli naturali (10 e 13 anni) e sei minori in affido, che entrano a far parte della famiglia per periodi più o meno lunghi, talvolta fino al raggiungimento della maggiore età, a seconda della valutazione dei servizi sociali.
«Buongiorno, padre Gilberto», esordisce con finto simpatico ossequio Michele, quando lo saluto. «È arrivato lo zio Gibo!», corre voce tra i bambini appena varco la soglia di casa. E devo dire che fa un certo effetto sentirsi chiamare «zio» da bambini e ragazzi padovani e vicentini, pugliesi e senegalesi, albanesi e bengalesi. Prima di qualsiasi titolo ecclesiastico o ruolo professionale, per loro sono semplicemente, immediatamente zio.
Fa bene a loro, alle loro storie piene di paure e di abbandoni e povere di affetto e di cura, la presenza di un adulto affidabile, che voglia loro bene gratis, che passi del tempo insieme a giocare, fare i compiti, lavorare, camminare in montagna.
Fa bene sicuramente a me e alla mia vita di frate uscire ogni tanto dai ruoli istituzionali e dagli orari incalzanti, per entrare in una dimensione più familiare, a misura d’uomo; anzi, di bambino!
Camminare insieme, un frate e due sposi
C’è una profonda intesa con Silvia e Michele, frutto di anni di amicizia e frequentazione.
Con loro riassaporo il gusto genuino del Vangelo, che cosa voglia dire diventare «pescatori di uomini»: provare a tirar su piccoli esseri umani dagli abissi nei quali i flutti della vita rischiano di far affogare. Da loro imparo che l’accoglienza, la cura e la promozione delle persone più fragili non sono soltanto valori da meditare e predicare, ma vita vissuta h 24, 365 giorni all’anno.
D’altro canto, la mia vocazione francescana può essere per loro testimonianza del primato di Dio, della bussola del Vangelo, di uno stile di fraternità e condivisione, in povertà e letizia.
Insieme scopriamo che la vita, ogni vita umana sgorga e può essere rigenerata dal grembo paterno e materno di un Dio che è Padre misericordioso; può essere segno di un amore che ci precede e ci raggiunge gratuitamente, così che noi gratuitamente possiamo a nostra volta donarlo.
Qualcuno la chiamava complementarità dei carismi e delle vocazioni, dentro la grande famiglia della Chiesa. Cosa che può funzionare solo se al di sopra di tutto c’è la carità che «tutto spera e tutto sopporta», l’amore che «non avrà mai fine» e che però chiede l’audacia di sempre nuovi inizi.
Leggere la vita, imparare a pregare
Periodicamente con Silvia e Michele riprendiamo in mano alcune cose accadute, rileggiamo qualche evento faticoso, le difficoltà e i conflitti presenti. Lo facciamo anche con i ragazzi, durante una camminata in montagna, mentre svolgiamo un lavoretto o dopo una partita a pallavolo.
I momenti più fruttuosi sono quando ci troviamo tutti insieme attorno a una pagina di Vangelo. La leggiamo e a volte la drammatizziamo. Ci lasciamo stupire dal modo di fare e di parlare di Gesù, dalla sua capacità di gettare luce sulle nostre vicende e di farci gustare un modo bello e possibile di stare insieme nella diversità e unicità di ciascuno, riscoprendoci tutti fratelli e sorelle, figli dell’unico Padre.
E poi ciascuno, cristiano o musulmano, prova a tirare fuori una sua preghiera, come è capace. Possibilmente non un “proposito” che odori di moralismo («Farò sempre tutti i compiti… Non litigherò più…»: ma quando mai?!), ma una parola che profumi di famiglia («Grazie Silvia perché… Sono contento di essere qui perché… Chiedo scusa a…»): una piccola luce per la propria strada.
Quando poi la sera rientro in convento, mi chiedo: un bambino ferito negli affetti più profondi, ma che ritrova il sorriso quando chiama Silvia «mamma» e Michele «papà», e un po’ anche quando chiama me «zio», non mi insegna forse a pregare…?
E quando i figli “naturali” si dimostrano felici e pure un po’ fieri di avere 6 fratelli letteralmente di tutti i colori, presentandoli “naturalmente” come fratelli e sorelle, non sono forse dei piccoli maestri di vita…?
fra Gilberto Depeder – info@vocazionefrancescana.org