Il 14 agosto 1941, p. Massimiliano Kolbe, frate francescano conventuale, moriva di fame e di sete nel bunker del campo di concentramento di Auschwitz. Si era offerto spontaneamente al posto di un padre di famiglia già destinato a quella tragica fine. Un gesto di resurrezione e speranza nel buio e nel non senso più totale.
Quest’anno ricordiamo anche i 100 anni del movimento mariano “Milizia dell’Immacolata” che sempre p. Kolbe fondò nel 1917 a Roma con altri 6 frati suoi compagni studenti di teologia.
Ci parla di questo frate straordinario, martire d’amore e cantore dell’Immacolata, p. Francesco Ruffato, un anziano e saggio religioso della mia comunità “del Santo” di Padova.
Al Signore Gesù sempre la nostra lode.

Cento anni fa, in una notte d’autunno, a Roma, 7 giovanissimi frati studenti, francescani minori conventuali, internazionali, animati dal futuro P. Massimiliano Kolbe, diedero vita al movimento mariano Milizia dell’Immacolata (M.I.), per far fronte all’attività massonica, anticlericale e, soprattutto, antiecclesiale, antipapale. Le loro mani erano senza armi: pregavano, studiavano e progettavano pacificamente, affidandosi alla Madonna, quale garanzia di successo. Terminati gli studi teologici, a guerra finita (1919), tornarono nei loro Paesi di origine con il proposito di dedicare tutta la vita a diffondere lo spirito della M.I. Alcuni di loro sono morti tra gli appestati, altri compiendo sacrifici per aiutare poveri e perseguitati. Tutti erano disposti a morire pur di servire il bene, combattendo contro ogni violenza e sopruso.
La seconda guerra mondiale inghiottì soprattutto p. Kolbe. Nella Prefazione di una celebre biografia “Le fou de notre Dame” (Paris 1948), firmata da Maria Winowska, Bruno De Solages, scrive: “Il racconto della sua morte è una delle cose più atroci e insieme più sublimi che sia dato di leggere in un libro umano”. Kolbe, prigioniero ad Auschwitz, lo ricordiamo il 14 di agosto, ogni anno: si era sostituito spontaneamente a un padre di famiglia, condannato, con altri 9 compagni, a morire di fame e sete in un famigerato Bunker. Storia che commuove ancora oggi, a 76 anni dal martirio, riconosciuto dalla Chiesa nel 1982.
Un recente studio sulla figura, rivela che p. Kolbe si staglia come un personaggio non ancora totalmente compreso, “perché al di là di ogni confine”, sin dalla giovinezza con il desiderio dominante di offrire la propria vita per amore del prossimo. Lo attesta la sua mamma. Lo si trova scritto nel suo Diario: “Sacerdote novello, presso il sepolcro romano della martire santa Anastasia, il giorno di Natale, celebra la seconda Messa “pro amore usque ad victimam” (per amore fino ad essere vittima); aveva celebrato la prima sull’altare della Confessione in San Pietro “pro gratia apostolatus et martyrii”. Cambiò il noto detto dei gesuiti “ad majorem Dei gloriam” con “ad maximam Dei gloriam”. Alla mamma scrisse un giorno da Roma: “Prega per me, mamma, perché il mio amore cresca sempre più presto e senza limiti. Prega, soprattutto, che sia senza limiti”. Sua mamma racconta: “Ne era sempre compreso e, in ogni occasione, accennava con il viso raggiante alla sua desiderata morte di martire. E così io vi ero preparata, come la Madonna dopo la profezia di Simeone”.
Da missionario in Giappone scriveva ai suoi confratelli in Polonia: “Lo spirito non conosce vecchiaia. Solo la dimenticanza degli ideali da una parte, e dall’altra la mancanza di tempestività nell’adattarsi alle mutate condizioni dei tempi e delle circostanze cagionano l’indebolimento della vita e l’ineluttabile discesa, fino a prendere forma di nani”. “A guardarlo bene, scrive un suo biografo, quest’uomo sembra che abbia sintetizzato e armonizzato in sé il tipico romanticismo dei popoli slavi, con il senso realistico e positivo dei popoli anglosassoni, e l’equilibrio universalistico dei popoli latini”.
