Ricordiamo oggi la testimonianza di un frate francescano, martirizzato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Per essi era solo il numero 16670, tatuato sul braccio e la sua morte terribile, una fra le tante, nell’orrore quotidiano del lager.
Ma una luce vivissima di umanità e speranza, grazie al sacrifico di questo frate, brillò anche nel campo di concentramento!
Si tratta di San Massimiliano Maria Kolbe, frate Minore Conventuale (il ramo dell’Ordine Francescano a cui anch’io appartengo), polacco di nazionalità, che morì il 14 agosto del 1941 ad Auschwitz per essersi offerto al posto di una altro prigioniero, Francesco Gajowniczek, già destinato al bunker della morte. Una tremenda e tragica scelta, ma coerente con ciò che da sempre aveva creduto e annunciato. Dopo due settimane di indicibili sofferenze, nel porgere il braccio per la puntura di acido fenico che l’avrebbe finito, fra’ Massimiliano serenamente dice: “Ave, Maria!”. E’ la vigilia dell’Assunta ed ha 47 anni.
P. Kolbe resta infatti una figura eccezionale di religioso mai del tutto approfondita e compresa. Al riguardo riporto di seguito una bella riflessione di un caro confratello, P. Francesco Ruffato, da sempre suo appassionato studioso e cultore.
Cari amici, vi invito a guardare alla testimonianza audace e mite di P. Kolbe: la sua intercessione vi sostenga nella vostra ricerca vocazionale e nell’abbandonarvi con umiltà e gioia alla volontà di Dio per la vostra vita.
fra Alberto – fraalberto@vocazionefrancescana.org

In un dialogo d’arte il lagerfurher Rudolf Hoss, a seguito dell’episodio “Kolbe” accaduto ad Auschwitz, verso la fine di luglio 1941, rimprovera il suo vice con amara acutezza: “Ricordati che i preti sono come le anguille. Ti sfuggono di mano facilmente, per diventare eroi. Auschwitz non ha bisogno di martiri. Grosso errore accettare la proposta del Kolbe. Qui si deve morire lentamente. Notte e nebbia!” Ad Auschwitz, Padre Kolbe si donò, non per nulla, ma per l’altro e per sempre, cioè per l’eternità. Era sicuro di non fallire, anzi godeva di un legame nuovo con Dio, grazie a Maria di Nazareth, che lui invocava affettuosamente come “Immacolata”.
Il suo ultimo gesto è stato un seme di nuova umanità. Padre Kolbe era un uomo coraggioso, che onorava la sua libertà credendo in Dio, sperando sulla intercessione di Maria, madre di Gesù e amando il prossimo fino all’inverosimile. Più di così Auschwitz non poteva ricevere da un francescano, numero tatuato 16670, ridotto a un verme, senza identità. Né di più egli poteva donare per stupire, perfino le SS: ”Un uomo simile qui non l’abbiamo mai visto!”. Nemmeno sua madre poteva sognarlo, per quanto lo stimasse capace di cose grandi. Qualcuno ha scritto che “la logica del dono è onorata e tradotta lì dove la dignità umana è rispettata”.
E quando il dono è proibito e imprevedibile? Alludo al Padre Kolbe che si donò per sostituire un padre di famiglia, condannato a morire di fame e di sete, con altri 9 prigionieri, nel bunker della morte ad Auschwitz, il 14 agosto 1941. Quel gesto non era concesso dalla criminale disciplina del Lager. Per il sergente polacco Francesco Gajowniczek, l’uomo salvato dal Kolbe, fu un’opportunità, preparata da atti generosi quotidiani del suo benefattore. Questi, al campo, donava il proprio “rancio” ai giovani dicendo: “Voi dovete sopravvivere, siete il futuro della libertà di molti.” Tre giorni prima (28 agosto 1939) dell’invasione della Polonia (1 settembre c.a.), durante una conferenza, prevedendo la tragedia, disse: “Non voglio morire di una morte comune”.

Ne abbiamo conferma due anni dopo, il 31 gennaio 1941, 17 giorni prima dell’ultimo arresto, in una lettera a un suo confratello missionario in Giappone: “Io sognavo di deporre le mie ossa a fondamento della ‘Città dell’Immacolata’ giapponese, ma lei (Maria) ha voluto diversamente. Chissà dove vorrà che io le deponga un giorno”. Verso la fine di maggio 1941, dal duro carcere Pawiak di Varsavia fu tradotto ad Auschwitz, assieme ad altri preti, intellettuali e ebrei polacchi. Il vice comandante del Campo li avvertì subito: “ Siete arrivati in un campo di concentramento tedesco. L’unica uscita è il forno crematorio. Qui gli ebrei non vivono più di due settimane, i preti un mese, gli altri tre mesi.” Il primo lavoro: portare con un altro (Giuseppe Stemler, testimone sopravvissuto) i morti al forno crematorio. L’ultima espressione per ognuno era: “E il Verbo (Gesù) si fece carne e venne abitare in mezzo a noi”. Anche l’ultima lettera a sua madre (15 giugno 1941) fa presagire il sublime progetto: “ Amata mamma, stai tranquilla.
Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutti e a tutto. Sarebbe bene che non mi scrivessi prima che io ti mandi un’altra lettera, perché non so quanto tempo rimarrò qui”. Una pattuglia lo trovò un giorno sotto un cumulo di foglie, gettato là dai guardiani, dopo averlo picchiato. Era in preda alla febbre, aveva il viso tumefatto. Fu necessario ricoverarlo in infermeria. Gli fu assegnato l’ultimo posto libero, esposto alla corrente d’aria. Era contento, perché gli permetteva di accogliere i malati con una parola buona e di pregare al passaggio dei morti. “Viveva la sua detenzione come fosse un incarico di fiducia, temendo di non essere all’altezza del compito”(A. Frossard). E poi, racconta Gajowniczek, “quando il padre si avvicinò per prendere il mio posto, non potevo parlargli, ma ci siamo fissati negli occhi. Poi lo associarono agli altri sventurati. Dopo alcuni giorni venimmo a sapere che erano morti tutti.
Mi sento di aver ricevuto una consegna: andare per il mondo e dire che io sono vivo perché Padre Massimiliano Kolbe è stato più forte della paura di morire per me”. Jean Guitton, accademico di Francia, disse di lui: “Ai miei occhi è il più grande santo del Novecento”. Dopo il dono di Padre Kolbe, non si osi dire che “ad Auschwitz tutti siamo stati vittime e colpevoli”.
fra Luigi – info@vocazionefrancescana.org