Condivido oggi una bella testimonianza vocazionale di un giovane sacerdote della diocesi di Fano, don Giacomo Ruggeri.
Vi lascio subito alle sue parole.
fra Alberto – fraalberto@vocazionefrancescana.org
La scoperta della vocazione al sacerdozio, per quanto mi riguarda, è avvenuta in un clima e in un contesto feriale e quotidiano. Come a dire: non vi sono state esperienze o eventi particolari rivelatori che il Signore mi chiamava per quella strada.
Come il mormorio del vento leggero di cui Dio si è servito per rivelarsi a Elia
L’intuizione che il Signore aveva posto gli occhi su di me è arrivata durante un normale e annuale campo scuola estivo vocazionale organizzato dal Centro Diocesano Vocazioni. In uno scenario stupendo come le Dolomiti (avevo 15 anni) mentre camminavano per i sentieri verso la Marmolada un sacerdote mi chiese: “Giacomo, hai mai pensato di farti prete?”. La mia risposta fu un solo sguardo verso di lui accompagnato da una risata. E il cammino sul sentiero proseguì. Ma il Signore era già all’opera e, con questa “dichiarazione esplicita”, aveva scelto di esporsi nei miei confronti. Dopo un paio di mesi ritornai da quel sacerdote con questa domanda: che cosa avevano visto i tuoi occhi su di me? Cosa vedevi che io non vedevo? Lui iniziò a raccontarmi la sua storia vocazionale. Dopo 16 anni che sono sacerdote comprendo la ricchezza del racconto esperienziale che parte dalla propria vita, quel racconto che può essere il terreno di intuizioni dove il Signore inizia a seminare segni precisi, tangibili, concreti, senza sprecare la Grazia.
Indicatori precisi: parrocchia, gruppo, famiglia
Avevo iniziato a comprendere, negli anni delle superiori, che ero chiamato a donare la mia vita in qualcosa e qualcuno di grande, ma che non era pienamente nominato e chiaro a me stesso. Da qui il passo successivo: l’importanza di non disperdere i piccoli segni e affiancarsi a persone che avevano fatto scelte stabili di vita. Così è stato. Ho iniziato, nel periodo delle superiori, un percorso al Cdv (Centro Diocesano Vocazioni) che aveva sede, allora, in una parrocchia. Il fine settimana rientravo nel mio paese, durante le mattine frequentavo la scuola. Il tutto in un contesto parrocchiale. A distanza di anni posso dire che una comunità parrocchiale è un buon filtro per vagliare e misurare lo spessore, la natura, la maturità di una vocazione. La gente vede ciò che un prete non vede e, forse, nemmeno il padre spirituale scorge. La gente sì. Consiglio caldamente nei percorsi vocazionali una vita di discernimento in una parrocchia. L’approfondimento è proseguito negli anni delle superiori aprendomi anche a dei servizi che il mio parroco del paese di origine mi aveva chiesto: accompagnare le liturgie domenicali con il suono dell’organo e aprire un gruppo scout. Il sì definitivo che si dà a Dio muove i primi passi nei «feriali sì» piccoli e anche, solo all’apparenza, frammentati. Ma nella logica di Dio tutto si ricompone con giusta misura. Quando personalmente si intuisce, e le persone attorno lo confermano a vario titolo, che si è chiamati ad una vita di donazione consacrata, è importante ricordarsi tre cose: fare i passi graduali, verificare con umiltà e nella preghiera, ascoltare la vita che ti parla attorno. È importante per un ragazzo, chiamato eventualmente al sacerdozio, non guardare unicamente alla meta da raggiungere, con il rischio reale di dimenticarsi dell’età che si ha, le amicizie, gli hobby, ecc. Negli anni delle scuole superiori (Tecnico Agrario) ho amato tanto (e a tutt’oggi è così anche se non lo vivo concretamente!) lavorare la terra, il lavoro nei campi, coltivare le piante. Il motto Ora et labora di matrice benedettina ha una sua grande saggezza e sapienza in un cammino vocazionale. Imparare a coltivare con amore i frutti della terra per saper custodire ciò che Dio ha seminato nel proprio cuore. Così dicasi per il servizio all’organo nelle liturgie, in parrocchia: senti di avere gli occhi addosso, vieni chiamato ad accompagnare celebrazioni nuziali, esequie, ecc. Ciò che si vive a quell’età porta frutto negli avvenire. Il medesimo discorso lo si può fare per l’esperienza scout che ha favorito e ampliato la vocazione sacerdotale. “Quanto sei disposto a servire?” dice la domanda nel rituale della Promessa Scout. La risposta: “Se piace a Dio, per sempre”. Si, per sempre. In ambito pedagogico si afferma, a volte, che i giovani di oggi temono ciò che è per sempre. Anche una volta era così e i timori erano gli stessi. Diverso, semmai, era l’approccio, la verifica, il discernimento. Oggi vi è la tendenza, forse, a porsi più domande e a cercare risposte immediate di conferma. Ma non è così che vanno le cose. Ci vuole pazienza e, soprattutto, imparare a mettere ordine nella propria vita, come direbbe S. Ignazio di Loyola. E’ l’ordine del fine, della meta, del sapere dove voler andare e il come. Non è l’ordine della perfezione, ma della stabilità interiore, senza la quale nulla potrà avere futuro e durata.
Le difficoltà: un dono per maturare
Volendo ritornare al sentiero di montagna, dove la salita inizia a farsi sentire, anche nel percorso vocazionale è cosa molto buona l’essere aiutati a riconoscere fatiche, difficoltà, paure. Una fra tutte è la seguente: l’aver sbagliato strada, il non essere adatti e capaci. È importante confidare subito ad una persona fidata, un uomo una donna di Dio, quanto si porta nel cuore. Tenerlo in gestazione significa amplificare la paura in fuga, la fuga in abbandono. Le difficoltà non sono degli ostacoli, né tanto meno delle conferme che la strada intrapresa è sbagliata. Le difficoltà sono il segno di un cammino dal volto vero, puro, autentico, sincero. E tutto ciò costa fatica, sopportazione. Una vocazione sana matura sempre in un contesto di difficoltà oneste. Mai nascondersi dietro falsi problemi e tanto meno situazioni non risolte del proprio passato. Se non fai verità oggi sarai chiamato ad essere onesto domani. Le difficoltà, inoltre, sono quasi sempre accompagnate da esperienze che confermano la strada scelta come giusta e che Dio, non a caso, ha pensato e non inventato. Sono esperienze solitamente di servizio, di gratuità, di dono verso altri. Le chiamerei le “esperienze centrifughe” che aiutano a trovare il centro fuori da se stessi. La Provvidenza di Dio, solitamente, si serve proprio dei poveri, degli ammalati, delle situazioni di degrado umano, affettivo, familiare. Il dolore altrui aiuta a purificare e ripensare il proprio. Nella mia esperienza di sacerdote posso affermare, grazie all’insegnamento dei miei genitori (ora entrambi nella Vita eterna), che le difficoltà sono un’occasione di Grazia, di crescita interiore, di maturità a tutto tondo. S. Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, parlava di Satana come il “nemico”, rispetto all’amico, il Cristo. Nel momento delle difficoltà, dei tentennamenti e nei passi che si fanno incerti, il nemico si mette all’opera per distrarre dall’intenzione iniziale. In queste occasioni è provvidenziale il rimanere fermi e saldi – non ostinati – all’intuizione iniziale frutto dello Spirito. Il nemico gioca sporco, facendoci dissuadere dal cammino intrapreso, mostrando una via più facile, veloce, meno faticosa. E nella debolezza il cedere è quanto mai facile. Saggio, in tale situazione, confrontarsi con una persona del quale si ha stima, fiducia, riservatezza. Il parlare genera movimento interiore e impedisce alla desolazione di annidarsi, attecchire e portare frutto, a modo suo.
Una volta scelto? Maturare nella perseveranza
Le scelte si pensano, si compiono, si portano avanti. Non basta aver scelto, bisogna essere perseveranti nella scelta. Quali aiuti, in tal senso? Come primo elemento vedo cruciale una costante chiarezza interiore e onestà con se stessi, nel dirsi che cosa si desidera, si vuole fare e scegliere. Le motivazioni iniziali esigono una quotidiana purificazione. Vi può essere il rischio di rivestire un ruolo, un incarico, esercitarlo anche bene, ma interiormente si sono perse le motivazioni di fondo di ciò che si è e si fa. Si impazzisce. Penso ad alcuni confratelli che hanno attraversato questa fase con tribolazioni forti. Come secondo elemento indicherei, quale aiuto, una vita spirituale che sia fedele alla Parola di Dio, ai Sacramenti. Un ulteriore aiuto lo vedo nella vita di condivisione tra sacerdoti, partendo dalla mensa comune, nel realizzare esperienze pastorali insieme, senza umiliare i confratelli e avendo stima di loro, senza fermarsi al carattere personale del quale ognuno risponde in prima persona. Ed infine, ma non da ultimo, l’aiuto arriva dalla gente della comunità, dai bambini agli anziani, passando attraverso tappe di gioia e di dolore. Questo è l’aiuto principale.
don Giacomo Ruggeri – info@vocazionefrancescana.org