Nella vita di ogni uomo, ci sono tante esitazioni nel rispondere alla chiamata di Dio. La vocazione di Geremia ne è un paradigma (Ger 1, 4-19).
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni». Risposi: «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».
Ma il Signore mi disse: «Non dire: “Sono giovane”. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò. Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti». (Ger1,5-8)
Al Signore che gli dice: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni” (v. 5), Geremia oppone resistenza: “Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane” (v. 6).
È l’esperienza di ognuno di noi. Qualsiasi sia la nostra vocazione, per dire di sì a Dio dobbiamo superare resistenze, sciogliere dubbi, vincere paure, metterci in cammino. Nessuno di noi è esente da questo travaglio, perché Dio ci ha fatto come un’ “incompiuta” e vuole che ognuno di noi porti a termine il lavoro della creazione di sè, un po’ come fa lo scultore, che a suon di martellate toglie via il marmo in più perché venga fuori l’opera d’arte.
A partire da questo, vorrei offrirvi un piccolo itinerario (tre tappe in tutto) per superare le resistenze alla vocazione e lasciare campo libero all’irrompere della Grazia. Lo faccio prendendo a prestito una fiaba raccontata da A. Grün.
Tappa 1: conoscere sé stessi
“Un conte manda il proprio figlio da un maestro in una città straniera, affinché impari qualcosa di utile. Il figlio ritorna dopo un anno, avendo imparato la lingua dei latrati dei cani. Il padre, in preda all’ira, lo manda da un altro maestro. Ma anche qui il figlio non appaga le aspettative e i desideri del padre nei suoi confronti: impara la lingua delle rane e il terzo anno quella degli uccelli. Il padre dà allora ordine di ucciderlo. I servi hanno pietà di lui e così il giovane riesce a fuggire. Arriva a un castello dove dovrebbe passare la notte. Ma il castellano può offrirgli solo la torre, in cui dimorano cani feroci e latranti. Egli però non ne ha paura e parla amichevolmente con loro. Essi allora gli rivelano che sono così feroci solo perché custodiscono un tesoro. Lo aiutano a dissotterrare il tesoro e poi spariscono” (A. Grun, Il libro dell’arte della vita, Queriniana, Brescia 2004, pp. 23-24).
Cosa ci dice l’episodio dei cani latranti? Ci dice che non possiamo parlare la lingua dello Spirito se prima non comprendiamo quella dei cani latranti, cioè delle forze primarie che sono in noi: i desideri, le passioni, le angosce, le emozioni.
Ecco la prima tappa del nostro itinerario per vincere le resistenze alla chiamata: conoscere in profondità noi stessi, imparare la lingua dei cani latranti, chiamare per nome i draghi che scorazzano nella nostra anima. Allo stato brado, essi sono: sesso, cibo, soldi, violenza, potere, gloria; quando non trovano niente da mangiare, si trasformano in depressione, tristezza, frustrazione, amarezza, rancore; quando si trovano nelle tenebre, diventano esitazione, paura, angoscia.
Verrebbe voglia di incatenarli questi draghi, ma in cattività essi diventano furiosi più che mai; qualcuno crede di poterli uccidere, ma in tal modo, uccide anche se stesso, perché là, dentro di lui, dove latrano i cani, dove scorrazzano i draghi, sta sepolto il tesoro. E’ importante che comprendiamo la lingua delle forze primarie che ci abitano e scoprire il tesoro che esse rappresentano.
Che fare? Prima di tutto è necessario ascoltare e chiamare per nome i nostri desideri e le nostre passioni; sono forze trasgressive, ma anche grandi tesori. Non dobbiamo vergognarci di possederle. Finché non raggiungiamo questa libertà, siamo sottoposti al loro dominio e dunque loro prigionieri.
Il guardare onestamente in faccia ciò che si muove nel nostro cuore, non è per reprimerlo, neanche per lasciarlo andare a briglia sciolta, ma per risanarlo e accrescerlo. Ciò che a questo punto è urgente fare è l’innesto dello Spirito. Dove questo innesto riesce, i latrati si trasformano in canti, i draghi cattivi in draghi buoni, i vizi in virtù, i peccatori in santi. La nostra energia vitale non viene distrutta, ma risanata e trasfigurata; la nostra vita diviene, nonostante ogni difficoltà e sofferenza, bella, beata e felice.
- Mi chiedo: So ascoltare e dare un nome alle forze oscure che si muovono dentro di me? So cosa significa innestare in esse lo Spirito? Vorrei essere aiutato nel farlo?
Tappa 2: consegnare a Dio la propria libertà
“Il giovane (col suo tesoro) prosegue verso Sud e passa di fianco a uno stagno, in cui le rane parlano di lui. A Roma è morto il papa; i cardinali si mettono d’accordo che Dio debba indicare con un miracolo chi devono eleggere come papa. Il giovane lascia lo stagno e si mette in cammino verso Roma”.
Cosa significano le rane nello stagno che svelano al giovane il suo futuro? Le risposte possono essere tante; a me pare che esse rappresentino la forza della ragione che orienta, discerne, aiuta a comprendere il Mistero della vita.
Ciò che è determinante, nel simbolo, è che le rane mettono in cammino il giovane, non lo fanno fermare nello stagno, lo rimandano oltre.
Il corretto uso della ragione ci rimanda sempre oltre, ci apre al Mistero. E’ normale che un giovane si domandi: “Perché non posso fare quello che voglio io, ma devo fare quello che vuole Dio? Perché devo dire di sì a una vocazione che è Dio a darmi e non nasce dalla mia volontà?”. Sono domande legittime, che esigono risposte sensate. Le rane della fiaba ci invitano a camminare oltre, ad entrare nel Mistero, a consegnare la nostra libertà a Dio.
San Francesco, in uno dei suoi rari scritti (Ammonizione II) sostiene che la disobbedienza di Adamo consiste nell’appropriarsi della propria volontà e d conseguenza nel rifiutare la volontà di Dio. E’ il peccato che danna Lucifero, che sta alla radice di ogni peccato. E’ questa la resistenza più grande e pericolosa anche per la nostra vocazione. E’ la resistenza che mette al primo posto la propria volontà e finisce con l’adorare se stesso, non riconducendo più la propria vita e quella del mondo a Dio, come invece è iscritto nella nostra condizione di creature.
La massima di questo comportamento autoreferenziale è: “fa’ ciò che vuoi”; i suoi comandamenti escludono ogni regola, se non quella di seguire la propria volontà e soddisfare i propri desideri. Questo atteggiamento fa parte della cultura che respiriamo; è un culto che si ramifica in liturgie diverse, ma che alla fine non fa altro che esaltare l’”io”, dilatandolo in modo strabocchevole, come la gelatina di una medusa gigante che ricopre e ingloba tutto ciò in cui si posa.
- Mi domando: Considero dignitoso per l’uomo ricevere la vocazione da Dio? Mi sono messo in ascolto della sua chiamata? Ho già trovato qualche segno del suo mandato per me?
Tappa 3: avere fiducia in Dio
“Il giovane arriva a Roma; entra nella chiesa dove sono radunati gli elettori e due colombe bianche si posano sulle sue spalle. Quello per i cardinali è l’atteso miracolo ed essi lo eleggono pontefice”.
Beh, forse non ce l’aspettavamo, ma è solo una fiaba; le cose in realtà funzionano diversamente… Il significato tuttavia è molto forte: dobbiamo prima comprendere la lingua dei latrati dei cani e la lingua delle rane, per poter poi parlare la lingua dello Spirito.
La lingua dello Spirito, qui dice fiducia in Dio, abbandono al suo Amore; le ultime resistenze si vincono buttandosi tra le sue braccia. Teresa di Lisieux scrive in Storia di un’anima:
“Neppure il peccato mortale mi toglierebbe la fiducia. Io mi innalzo a Dio con fiducia e amore non perché sia stata preservata dal peccato mortale: sento che quand’anche avessi sulla mia coscienza tutti i delitti possibili, non perderei nulla della mia fiducia” (cap. X).
Questo è l’ingrediente principale che ci permette di accogliere con gioia e con frutto la vocazione che Dio vuole darci.
- Ho fiducia in Dio? So abbandonarmi tra le sue braccia come un bambino in braccio a sua madre?
Conclusione
Giovanni Paolo II, ha detto parole indimenticabili ai giovani della Giornata Mondiale della Gioventù di Roma 2000:
“Carissimi giovani, se sarete quello che dovete essere, incendierete il mondo”. Vuol dire: “Se vivrete in pieno la vostra vocazione, vincendo tutte le resistenze, darete vita all’unica rivoluzione che può davvero cambiare il mondo”.
Sia così per ciascuno di noi: seguendo il Signore sulla strada dell’Amore, possiamo davvero incendiare noi stessi, chi ci sta vicino e tutto il mondo.
Don Sandro Panizzolo – info@vocazionefrancescana.org
Caro fra alberto questo tuo angolino nasconde belle sorprese … Il Signore te ne renda merito
pace a te caro Giuseppe..grazie anche ate per la fiducia.
sarà strano trovare il commento di una ragazza..ma mi ritrovo con un fidanzato che da quando ha avuto una conversione forte, non capisce più nulla..mi parla di vocazione ma mi ama tanto..ora è confuso,io lo vedo,io che lo conosco meglio della sua mamma,io che gli sono stata vicino nel periodo della sua dipendenza da cocaina.. Io che lo amo da morire..ho paura..affido ogni giorno la sua vita nelle mani del Signore..ma penso a questo punto che dovrei lasciarlo per fargli completare al meglio il suo discernimento.. Ma lo amo e questo amore lo sento forte e diverso dagli altri. Ho… Leggi il resto »
Ciao fr. Alberto! …e grazie!Diciamo che Anselm Grum mi è particolarmente familiare ultimamente!!!:) cmq volevo ringraziarti per quest’angolo molto riservato nella galassia chiassosa di internet. Poi che dire… che bella questa catechesi!!! Mediterò sui “mi domando” e poi ti farò sapere: è proprio vero che quando ti fidi…ti affidi! Riflettevo nei giorni passati la Chiamata non pretende di stravolgerti la vita, ma di affidartene una nuova: a tal propostio Mc 8,34- 9,1 [ brano del giorno, nonché il Vangelo di Francesco ;)] è per me molto significativo. Mi era sorta spontanea in mente una frase “deprezzare se stessi, per acquisire… Leggi il resto »