In missione in Cile, per imparare a lasciarsi accogliere e accogliere: “stare accanto” per ampliare lo sguardo e lasciarsi interpellare da chi ci viene incontro.
Tutto è iniziato con la domanda inaspettata del mio formatore: “Avevamo pensato di mandarti a fare un’esperienza in Cile con Alberto. Che ne pensi?”…ed ecco che dal 20 luglio al 4 settembre mi sono ritrovato a vivere un tempo di missione con un mio confratello, Alberto, in questo paese dell’America Latina. Il mese e mezzo trascorso lì non potrà essere racchiuso interamente dalle parole che seguiranno, mi limiterò a fornire delle suggestioni che pur non esaurendo il vissuto, spero siano in grado di tratteggiarne gli aspetti centrali. Sono spunti che necessitano ancora di tempo per essere digeriti e interiorizzati.

La prima cosa che mi ha colpito del popolo cileno è la capacità di accogliere. L’accoglienza è stata in primo luogo dei frati che ci hanno da subito considerato parte della loro fraternità, ma lo è stata soprattutto quella di quanti abbiamo avuto modo di incontrare: dai senzatetto ai bambini del “circo” pomeridiano passando per i giovani universitari.
Mi è parso di essere visto sì come straniero (cosa che chiaramente ero), ma non come estraneo: era facile entrare in contatto con le storie delle persone, con le loro fatiche e gioie, senza sentire la paura del giudizio, ma il desiderio di relazione. Ricordo volentieri come durante una missione popolare in un paesino di circa duemila abitanti, la gente che incontravamo ci invitasse spesso nelle loro case offrendoci un po’ di frutta, un bicchiere d’acqua o quello che potevano a partire da un sorriso.
Lo stesso vale per i giovani cileni con cui ci siamo trovati a collaborare maggiormente: gli inviti a cena o a compleanni, a vedere l’università dove studiavano, ad animare momenti di preghiera, a raccontarsi e condividere le esperienze vissute insieme, ci hanno fatto respirare relazioni molto spontanee e libere sotto il segno di una comunione che attraversa barriere linguistiche e culturali grazie alla curiosità di chi desidera incontrare la persona nel suo vissuto autentico, così diverso dal “mio” perché vede e sente la realtà in modo unico.

Tutto questo procedeva di pari passo con la necessità di togliersi le lenti con cui sono da sempre stato abituato a guardare e a leggere il mondo. Non che il Cile sia completamente diverso da un paese come l’Italia – mi ha sorpreso vedere una vita molto “occidentale” nella quale dinamiche sociali che in Europa hanno preso piede a partire dal ’68 e lì invece sono condensate negli ultimi 30 anni – ma presenta indubbiamente le sue peculiarità e differenze.
Per cercare di comprendere, conoscere e fare esperienza di una cultura diversa, ho trovato necessario provare a non leggere le cose secondo schemi, interpretazioni che già mi appartengono, ma prendere prospettiva diversa: quella di chi avevo davanti. Credo che questa sia stata la sfida più impegnativa di quel mese: accogliere per ciò che erano gli stimoli che mi giungevano.
È stata una bella palestra mettersi in ascolto aprendosi ad una realtà diversa con il coraggio di lasciarsi coinvolgere e cambiare da ciò che incontravo… e penso sia proprio questa una delle bellezze della missione. Essere un missionario mi pare possa tradursi proprio in quest’apertura relazionale verso un qualcosa/qualcuno diverso da me e perciò capace di arricchire e ampliare il mio sguardo su ciò che mi circonda, aiutandomi a scoprire in modo nuovo ciò che vivo… e in questa diversità cogliere (a volte, non lo nascondo, a fatica) la bellezza di un Gesù che parla e si incarna in modo diverso a seconda di dove venga accolto.

Ecco perché essere missionario è per lo più sinonimo di “stare accanto”. Contrariamente a quanto mi è capitato di pensare in alcune occasioni, il missionario non è tanto (o necessariamente) colui che si dà da fare per cambiare le cose con il proprio contributo. Certo, questo si può verificare, ma, se accade, accade solo in seguito. Vivere la missione mi sembra sia più simile a un cammino fatto insieme per cui un missionario si pone accanto, ascolta, cammina a sua volta per la stessa strada e si fa fratello. Non si tratta quindi di “portare” qualcosa calato dall’alto, ma di “stare” al passo, sostenendo e venendo sostenuto, ascoltando le provocazioni che nascono da questo camminare insieme e provando a trovare insieme la strada.
Proprio per questo, mi accorgo che non è stato indifferente conoscere un paese come gruppo piuttosto che da solo. Gli interrogativi che sorgevano hanno spesso stimolato un ricco confronto, in particolare con fra Alberto. Inoltre, vivere quest’esperienza potendo condividere ciò con altri ragazzi e con i frati, che ormai da molti anni abitano e operano lì, è stato motivo di grande arricchimento. Sono certo che da solo sarei tornato in Italia con la valigia un po’ più vuota.
Cercare di trovare dei frutti in un albero che ha appena iniziato a gettare i primi fiori è sicuramente prematuro, ma è possibile quanto meno intuire la possibile entità di un raccolto. Ecco quindi che da quanto detto emerge la possibilità di un nuovo modo di guardare e vivere quanto mi viene affidato (gli incarichi comunitari, l’impegno pastorale in parrocchia, ecc.), provando a non prestare troppa attenzione a “fare” qualcosa, ma a “stare” nelle relazioni che gli incontri mi propongono ed “ascoltare” quanto la vita propone nella quotidianità per incontrare un Signore che si fa presente in modalità diverse da quelle che potrei aspettarmi e scoprire così modi nuovi per donarmi.
Rendo grazie a Lui per quanto vissuto chiedendo di non disperdere ciò che mi ha dato attraverso il Cile e la sua gente.
fra Damiano Castagna – info@vocazionefrancescana.org