Non finito non è incompiuto! Qualche volta queste due definizioni potrebbero esprimere la stessa cosa, dove il non finito ad un primo sguardo potrebbe far pensare ad un’opera non portata a termine.
In realtà ne esprime tutta la potenzialità: non finito infatti può anche essere letto come una mancanza di limiti e di confini. È proprio entro questi due apparenti opposti che si può comprendere i Prigioni, opera incompiuta di Michelangelo.
Azzardo pensare che nella geniale intuizione di Michelangelo sia rappresentata la profondità dell’animo umano, nelle sue mille sfaccettature e possibilità, certo non esenti dalle fragilità della creaturalità propria dell’uomo, quelle parti appena sbozzate, quei tratti ruvidi e incisi dallo scalpello e anche gli stessi ripensamenti, tutto concorre a rappresentare la fondamentale unicità di ogni uomo.
Michelangelo riteneva che all’artista spettasse il compito di togliere il “di più” presente nel blocco di marmo selezionato dalla cava, scavando e modellando la pietra per liberare la forma che era contenuta in essa, una sorta di presenza in potenza dell’opera già nel primordiale blocco da scolpire.
Sulla scorta di questo pensiero, un po’ tutti possiamo sentirci scultori, artisti alla ricerca del nostro “ritratto” a immagine di Dio, opera sicuramente impegnativa ma affascinante. Il non finito di Michelangelo esprime bene la complessità del lavoro, e in qualche modo l’intuizione di questo grande artista, dice la dinamica fondamentale di ogni vita, un’opera a due mani, quelle dell’uomo e quelle di Dio.
Una dinamica che è movimento, che è progetto che si costruisce e si trasforma. Non si tratta di azzeccare l’identikit giusto, una sorta di “indovina chi vocazionale” fatto per sé stessi. Piuttosto una collaborazione dove nella fiducia, anche di fronte ad alcuni colpi di scalpello andati a vuoto, a qualche passaggio difficile e delicato, o a qualche scaglia da togliere che sembrava indispensabile, si cresce nella consapevole bellezza di quanto questa collaborazione sta costruendo.
Potremmo definirlo il gusto dell’opera: è l’atteggiamento dell’artista che allontanandosi dal proprio lavoro, riesce ad avere uno sguardo diverso, che gli permette di cogliere l’insieme e li, ecco che spunta la meraviglia, perché ciò che non si riusciva ad intuire perché troppo vicini, appare nel suo splendore. È lo stupore che si prova quando si guarda al proprio cammino, ai passi fatti laddove non si credeva possibile, e si acquisisce consapevolezza di un cammino a tu per tu, fatto con il Signore, e questa è gioia umile serena e forte che illumina lo sguardo o lo riempie di fiducia per il futuro.
Non mancano le fatiche. La torsione e la tensione delle masse muscolari nel lavoro di Michelangelo, esprimono contemporaneamente proprio queste: la fatica dell’uscire da una situazione ben delineata e solida come può esserlo un blocco di marmo e allo stesso tempo l’energia che ha a disposizione l’animo umano per prendere vita, in qualche maniera potremmo dire per risorgere da ogni situazione di blocco.
Il Prigione è una immagine che rappresenta anche la fatica di “scalpellare via” tanti strati che si depositano e sedimentano, rischiando di diventare “paralizzanti” per quanto di nuovo chiede di nascere, certo la fatica non manca ma quale cosa bella non la richiede?
Qui sicuramente la bellezza non manca, e quella esteriore è solo un riflesso di quella che sta dentro, nel profondo. Davanti a quest’opera di Michelangelo si intuisce uno scatenarsi di forze, la vita che prende forma, l’intuizione di una chiamata ad una libertà di amore e la forza necessaria per realizzarla.
In fondo intuiamo che siamo chiamati a diventare con coraggio scultori di noi stessi, artisti che con arte e sapienza sanno scolpire con un linguaggio contemporaneo un messaggio antico ma che è sempre attuale, chiamati a modellare una vita a due perché sia dono di bellezza: bellezza di un dono ricevuto, bellezza di un dono condiviso!
fra Nicola Galiazzo – info@vocazionefrancescana.org