La vocazione non nasce dalle nostre lauree, dalla nostra ricchezza, né dalle nostre tante qualità, o perché sono una persona intelligente, spiritosa, accogliente, di buone maniere: No! Da lì non giunge alcuna vocazione. Nasce invece proprio dai tuoi fallimenti, e da quelli più grossi, quelli che magari non riesci neanche a confessare. Nelle nostre ferite nasce e germoglia il seme della vocazione.
Lettera di Angelo (22 anni – Milano)
Caro fra Alberto,
ti leggo sempre con grande interesse. Grazie per come ti dedichi a noi giovani (…). Da qualche tempo mi sto interrogando sulla vostra vita e forse, chissà, sarebbe bello diventare frate francescano. E’ nato in me questo pensiero dopo una recente visita ad Assisi, alla Basilica e in particolare alla tomba di san Francesco che mi ha molto scosso e turbato. In quel luogo, osservando anche un giovanissimo frate che pregava, mi sono infatti ritrovato a piangere…; ho dovuto scappare via. Per qualche istante ho pensato che quella scelta forse poteva essere bella anche per me.
Mi vedo però pieno di difetti e la mia vita (per quanto giovane… ho 22 anni) ha già avuto vari insuccessi e molte ferite che spesso sanguinano e mi fanno star male (una sessualità a volte disordinata che non so gestire bene e, tante fatiche in famiglia… i miei sono separati, le varie fughe in cerca di piaceri immediati che poi mi lasciano un grande vuoto dentro, la lontananza dalla chiesa che solo da un po’ sto in parte recuperando).
Come può essere compatibile una scelta così grande con la mia vita così contorta? Tra le mie ferite, i miei fallimenti e una possibile vocazione, quale relazione e che spiragli ci possono essere? Grazie per quello che mi dirai.
Angelo

Risposta di fra Alberto
Caro Angelo, grazie per quanto mi hai scritto di te. Mi chiedi in definitiva: “Tra le mie ferite, i miei fallimenti e una possibile vocazione, quale relazione e che spiragli ci possono essere?“.
E’ una domanda che anche molti altri ragazzi spesso mi pongono in termini analoghi: “sono così.., ho fatto questo e quello…, ho questo peccato, ho un vizio che mi pungola.., come posso pensare di diventare frate, di consacrarmi al Signore?”. Per risponderti ricorro in parte ad una bellissima catechesi che recentemente ho udito proprio ad Assisi, al Giovani verso Assisi, il nostro incontro annuale per tutti i giovani italiani che hanno simpatia per san Francesco.
Il relatore (padre Jean Paul Hernandez) chiedendosi l’origine di ogni vocazione rimandava al senso profondo del Battesimo che abbiamo ricevuto e che spesso rischiamo di non comprendere o dimenticare. Infatti, nel battesimo, in quell’essere immersi nell’acqua del fonte per poi riemergere è significato il nostro scendere con Gesù Cristo nella morte (nei nostri peccati e fallimenti e vizi e oscurità) per poi risalire con Lui rinnovati e lavati, rinati a nuova vita. Nei primi secoli del cristianesimo questo passaggio dalla morte alla vita espresso nel battesimo era ulteriormente rimarcato dal fatto che la celebrazione dello stesso avveniva durante la lunga notte tra il sabato santo e la domenica di Pasqua, cioè un passaggio attraverso la morte per arrivare alla resurrezione. Da qui un’espressione di P. Jean Paul che mi ha molto colpito: “Non c’è vocazione se non nasce proprio dal battesimo cioè uno scendere prima nella propria morte” .
La vocazione non nasce dunque dalle nostre lauree, tanto meno dalla nostra ricchezza, né dalle nostre tante qualità, o perché sono una persona intelligente, spiritosa, accogliente, di buone maniere: No! Da lì non giunge alcuna vocazione. Nasce invece proprio dai tuoi fallimenti, e da quelli più grossi, quelli che magari non riesci neanche a confessare.
Sei stato ad Assisi e alla tomba di San Francesco! Ebbene, il giovane Francesco, ricco e viziato ed egocentrico e pieno di sé, non sarebbe diventato San Francesco se non avesse attraversato precedentemente l’esperienza dell’essere sconfitto in guerra e della dura prigionia nel carcere a Perugia, se non avesse attraversato gli anni della giovinezza in cui non sapeva cosa fare, in cui sembrava un po’ “inebetito”, una sorta di fallito, se non avesse avuto l’ennesimo insuccesso a Spoleto (quando va in fumo anche l’ultimo tentativo di diventare cavaliere a cui tanto aspirava), quando è costretto a fermarsi, a riconoscere di non farcela, di non capire nulla, quando tutto gli va storto! Ebbene, proprio in tutti questi passaggi contorti, lì nasce la sua vocazione: nel fondo della morte.
Ecco, il battesimo è scendere nella propria morte e accorgersi che nel luogo più lontano dal cielo, nel fondo della vasca, nel luogo in cui tu ti senti morto (come Francesco quando è prigioniero a Perugia o come quando scappa impaurito e vigliacco di fronte al lebbroso, oppure quando si reca a Spoleto ancora rincorrendo inutili sogni di gloria) proprio lì, il Signore vuole iniziare con te l’avventura più bella del mondo. Lì, nelle sue morti, anche Francesco intuisce una parola diversa, un richiamo di salvezza e vita nuova, suggerita dallo Spirito: “Francesco, ma di chi ti devi fidare di più, da chi riceverai di più, dal servo o dal padrone?”. In definitiva, a Spoleto, Francesco accetta finalmente di porsi una domanda radicale e forte (suggerita dalla sua storia e dal Signore) circa il senso e l’orientamento da dare alla propria vita: per CHI e per CHE COSA vale la pena d’ora innanzi io mi spenda e lotti e creda?
Allora, caro Angelo, il primo quesito che devi porti circa la tua vocazione è: “qual è la mia morte? Che cosa dentro di me sa di morte?”. “Forse qualche grave ferita che ho ricevuto, forse qualche grave fallimento, forse i miei genitori che reputo non mi abbiano amato come avrebbero dovuto amarmi, forse sono figlio di una famiglia piena di conflitti, forse io stesso ho fatto tanto del male, forse io stesso anni fa ho fatto qualcosa di molto brutto che non riesco ancora a perdonarmi, o forse ancora oggi ho una brutta dipendenza che è la mia morte a cui non ci voglio pensare, da cui non riesco a uscire??!!” Eccolo lì, questo è il fondo della tua vasca, il luogo dove ti fai schifo, il luogo dove ti senti maledetto, lontano da Dio, lontano dal cielo, dentro al sarcofago. Ma queste ferite possono diventare i tuoi punti di forza; dai tuoi fallimenti e segni di morte, in Gesù, puoi rialzarti e ritrovare una nuova via, la tua via, la tua vocazione.
Nella Basilica superiore di san Francesco ad Assisi, avrai certo visto come Giotto rappresenti in un affresco un famoso episodio della vita del Poverello: il suo incontro con il crocifisso di san Damiano. Francesco è all’interno di una chiesetta tutta diroccata e squarciata (essa stessa ferita!) ed è in ginocchio davanti a questa immagine che tutti conosciamo. È un Crocifisso che parla di vita anche se immerso nella morte: ha, infatti, gli occhi aperti e spalancati, è vivo! Secondo alcuni studiosi questa icona va interpretata simbolicamente come una tomba, un sarcofago, un lungo sarcofago orizzontale. Dunque il Crocifisso di San Damiano è un Cristo che è già uscito dal sepolcro, che fa sorgere e venire la vita anche da una tomba e da uno strumento di morte com’era la croce.

Non è un caso allora se Francesco, proprio in quel momento della sua vita, in cui sta ancora cercando, in cui certo ha già avuto l’esperienza di Spoleto, ma ancora non sa molto bene come regolarsi e ancora spesso cade, fa delle fughe per non capire bene che cosa Dio gli sta dicendo, ecco, proprio in quel momento lì, davanti a questo crocifisso capisce che è nella sua morte, nella sua ferita, nel suo fallimento che Dio gli sta parlando e che Dio lo renderà capace di essere vicino ad altri fallimenti, a tutti i falliti della storia.
Il crocifisso gli rivela, infatti, una missione, una vocazione, una strada da percorrere forte e inaspettata: “Francesco va e ripara la mia casa, che come vedi cade in rovina”. Lui proprio perché ferito, fallito, incompleto e irrealizzato, lui stesso in fondo “casa in rovina” può incrociare lo sguardo del Crocifisso, “il fallito” per eccellenza (secondo la logica del mondo), e scoprirvi il volto del Risorto, lo sguardo del Signore Gesù il vivente che ha sconfitto ogni morte e da questi sentirsi amato e inviato per le strade degli uomini ad annunciare l’amore e la pace, a risanare e guarire, confortare e riparare tanti cuori infranti e dolenti e affaticati.
È grazie alle crepe della sua vita che il Signore ha potuto chiamare Francesco a riparare le crepe della Chiesa universale cioè della comunità, degli altri, dell’umanità… Così facendo, caro Angelo, anche tu potrai riparare le tue crepe e ferite ed essere guaritore di quelle altrui e trovare la tua vocazione.
Ti incoraggio dunque caro fratello! Non temere! Gli spiragli di cui mi chiedi per giungere alla tua vocazione sono dunque già tutti dentro di te. Devi solo osare ad accoglierli, dando loro un nome, e attraverso di essi intravedere il volto di Gesù crocifisso e risorto e diventare anche tu “un guaritore ferito”.
Ti benedico ! Al Signore Gesù sempre la nostra lode.
fra Alberto – fraalberto@vocazionefrancescana.org